S.E. Mons. Giampaolo Crepaldi
Arcivescovo-Vescovo di Trieste
7 giugno 2011
Premessa
Ringrazio sentitamente per l’invito rivoltomi a prendere la parola a conclusione del ciclo di conferenze sul rapporto tra fede e scienza. Mi congratulo con gli organizzatori dell’ISSR e il Vicariato per la cultura della nostra Diocesi per questa bella e significativa iniziativa. Il tema che mi è stato assegnato è il seguente: Alla ricerca della verità: la via della bellezza nella ricerca scientifica. Scienza e bellezza sono due ambiti che sembrano evocare una sorta di insanabile antagonismo. La scienza, in quanto esercizio di pura razionalità, sembra non avere nessun grado di parentela con la bellezza, che, a tutta prima, richiama il mondo dell’irrazionale, della sensibilità individuale, che trionfa sull’oggettività. La scienza poi è comunemente intesa come ricostruzione di una realtà che esiste al di fuori dell’uomo. E’ considerata oggettiva. La bellezza invece è una categoria che appartiene interamente al gusto e al giudizio soggettivi del singolo. Come ci hanno insegnato i cultori del Romanticismo, la bellezza ha un valore strettamente soggettivo. Essa abolisce l’unicità piuttosto che l’universalità. Spesso il raro è valutato bello ed il bello è raro. Si potrebbe continuare all’infinito, argomentando che il bello è eterno, mentre il vero scientifico è assoggettato al tempo, ma non ne vale la pena. Solitamente tutte queste ed altre simili osservazioni sono elaborate a partire da una prospettiva tutta immanente. La visione e, quindi, la problematica, cambia se entrambe – scienza e bellezza – le consideriamo a partire da Dio, Logos eterno e pura Bellezza, Creatore e Signore. A partire da qui che possiamo delineare una visione unitaria dell’uomo e anche dell’uomo di scienza: è il medesimo uomo infatti che giudica, modella e valuta, che calcola e spera, che descrive e sogna. E’ il medesimo uomo che vive di emozioni e conoscenza, che nello scorgere un ordine, una regola, una legge della natura, svela in essa il brivido della bellezza. La conoscenza è passione. Come ci ha insegnato Aristotele essa nasce dallo stupore di fronte alla bellezza delle cose. E’ la meraviglia, lo sgomento per lo spettacolo della natura, terribile e bello ad un tempo, che spinge l’uomo alla ricerca della verità, fino a giungere alla Verità fontale che è Dio.
In questo mio intervento – che intende avere un carattere prevalentemente pastorale -, nell’ambito della tematica attinente il rapporto tra fede e scienza, vorrei proporre alcune riflessioni su un segmento o tema specifico: la tecnica e le problematiche che pone alla fede oggi. Più in particolare, vorrei dapprima provare a rispondere a due domande. La prima è questa: da dove nasce l’importanza del problema della tecnica oggi? Perché oggi più di ieri la tecnica ci inquieta e ci si pone davanti come una questione urgentissima? Ciò è senz’altro dovuto allo stesso progresso scientifico e tecnico, ossia al nuovo potere che la tecnica mette nelle nostre mani. Quando le possibilità tecniche superano certe soglie critiche, l’avvertimento della tecnica come problema diventa vivo, viene percepito da tutti e non solo dagli addetti ai lavori. Tuttavia, non può essere questa l’unica spiegazione. L’emergenza della tecnica come problema non può derivare solo dalla constatazione che l’uomo è in grado di operare – per adoperare il linguaggio di Hannah Arendt – più di ieri, anche se ciò concerne un punto fortemente critico della sua esistenza. La percezione che la tecnica rappresenta un problema deve essere legato anche ad una interpretazione dello sviluppo tecnico, non solo ad una sua constatazione. A questo, appunto, intende riferirsi la mia domanda:. perché oggi più di ieri la tecnica ci inquieta e ci si pone davanti come la questione più urgente?
Dato che la risposta a questa prima domanda rimanda ad una comprensione o interpretazione della tecnica, essa è strettamente collegata con la risposta alla seconda domanda che intendo pormi: oggi, la tecnica cosa ha di diverso rispetto al passato? La tecnica è sempre stata nient’altro che la tecnica. Tuttavia, ci si può chiedere se oggi non siamo davanti ad una nuova fase della tecnica, ad una nuova comprensione di essa. Questo costituisce il vero problema: non la tecnica in sé, ma la nuova ideologia tecnocratica che ad essa oggi soggiace e che, a mio avviso, è diversa dal passato (cf. CV, cap VI).
Prenderò in considerazione poi alcuni spunti di riflessione del magistero della Chiesa sulla tecnica. Lo faremo, però, da un preciso punto di vista, cercando di vedere se nel magistero sociale ci siano modelli di tecnica capaci di correggere, per un verso, e indirizzare, per l’altro, la nuova ideologia tecnocratica. A questo proposito, vorrei anticipare una mia convinzione, che riprenderò alla fine di questa relazione. Sono del parere che il problema della tecnica sia oggi il principale problema della nostra cultura e della nostra società, problema rilevantissimo anche sul piano pastorale Penso che il principale pericolo sia la “tecnicizzazione” di sfere di vita che, così considerate, anziché venire governate dall’uomo ci sfuggono e il nostro potere si trasforma in impotenza. Il sogno di Prometeo o, per venire più vicini nel tempo, di Francesco Bacone, volendo mettere nelle mani dell’uomo il segreto dell’onnipotenza, in realtà spoglia quella mani, consegnando l’uomo alla tecnica come “anonima nudità del puro fare”. Orbene, davanti all’enorme peso di questo problema, ritengo che la Chiesa dovrebbe fare un sforzo ulteriore di comprensione del fenomeno e di indirizzo delle menti. Come avrò modo di dire in seguito, il magistero ha affrontato il problema della tecnica e in modo significativo è già oggi in grado di illuminarlo con importanti principi di riflessione e criteri di giudizio. A mio parere, tuttavia, si dà ancora un grande spazio di lavoro e approfondimento del pensiero per raggiungere un quadro organico di interpretazione del problema. Questo ulteriore lavoro di riflessione si fa urgente, come ho già detto, perché urgente è la penetrazione della tecnica nella nostra vita e urgente è la necessità per l’uomo di orientarla.
La tecnica, oggi.Mi chiedevo perché oggi il tema della tecnica emerga con drammatica urgenza e come si presenti oggi diversamente dal passato.
Il mio pensiero è che oggi la tecnica tenda a presentarsi ormai “allo stato puro”, ossia, come dicevo prima, nella “nudità del puro fare”. Sembra avverarsi la previsione di Henri De Lubac. Egli, illustrando il pensiero di Auguste Comte, metteva in evidenza come secondo il Positivismo la religione si sarebbe estinta, superata dalla visione positiva delle cose. Ciò, però, si sarebbe verificato non con modalità ateistiche, ma post-ateistiche: la scienza positiva non avrebbe solo dimostrato che le domande di senso non sono accessibili – che è la posizione ateistica – ma anche che esse sono prive di senso. L’uomo positivo non solo non si pone quelle domande perché le ritiene inutili, ma non se le pone nemmeno più. L’appiattimento dell’uomo sul puro fare, la tecnicizzazione del suo mondo, ci impaurisce perché non la vediamo nemmeno più accompagnata dall’ideologia della tecnica, ma dall’indifferenza a quanto non sia tecnica. Siamo preoccupati sì dalla tecnica, ma soprattutto dal fatto che dietro ad essa non si intraveda nulla, o si intraveda il nulla, ponendosi l’uomo solo domande circa il “come” e non più circa il “perché”. Questo intendo dire con l’espressione “nudità” della tecnica. Oggi la tecnica tende a giustificarsi con mera presenza e come pura possibilità di fare.
Anche Romano Guardini indicava questo volto livido della tecnica.. Nelle sue “Lettere dal Lago di Como” egli collega il dominio della tecnica con la pretesa di portare alla luce la radice stessa della vita, ciò che in essa è più intimo: “si scoprono uno dopo l’altro nuovi rapporti; i fatti diventano leggi; lo sguardo si spinge ad esplorare sempre più da vicino le sorgenti primordiali della vita, le origini”. A distanza di anni dalle previsioni di De Lubac e dalla riflessioni di Guardini, Joseph Ratzinger ha lucidamente messo a fuoco la dittatura della tecnica, che egli chiama Positivismo, secondo la quale “ciò che si sa fare, si può anche fare”. Joseph Ratzinger aveva da tempo seguito lo sviluppo della tecnica e nell’opera “Introduzione al Cristianesimo” ne aveva descritto la genealogia. Secondo lui i passaggi sono stati tre: Cartesio ha trasformato il sapere in calcolo, Vico ha individuato la verità nel factum; Marx l’ha individuata nel da farsi . Questa prospettiva di adesione al novum inteso come faciendum ha comportato di intendere l’alienazione come persistenza del passato (tradizione) e del trascendente (metafisica). La dittatura della tecnica sta tutta nel ritenere che tutto sia visibile e che tutto sia fattibile. Di più: nel pensare che l’essere delle cose consista nella visibilità e nella fattibilità. La “dittatura del relativismo”, denunciata più volte da Benedetto XVI, oggi prende soprattutto le sembianze della nudità della tecnica.
Uno dei motivi storici di questa trapasso culturale è da vedersi nei fatti dell’89 e in quanto ne è seguito. Se di tutto questo facciamo una lettura realistica, comprendiamo che fino ad allora il potere della tecnica era trattenuto da quello dell’ideologia. Tolta la camicia di forza dell’ideologia, si sono aperti spazi di libertà e di recupero religioso, ma si sono anche aperti spazi per il nichilismo allo stato puro. Il nichilismo, che in passato si era espresso mediante ideologie distruttrici, ora si esprime mediante la pura tecnica. Se oggi le questioni etiche e le questioni tecniche si oppongono in modo così radicale è perché la tecnica vuol fare dell’uomo un “prodotto”.
Dicevamo sopra che la nudità della tecnica comporta che tutto sia visibile e tutto sia fattibile. Quanto al primo punto, Ratzinger notava che, per la fede “l’elemento non suscettibile di essere visto, quello che non può assolutamente entrare nel nostra raggio visivo, non è affatto l’irreale, ma è anzi l’autentica realtà”. Quanto al secondo egli osservava che “La fede cristiana è un’opzione a favore di una realtà in cui il ricevere precede il fare; senza che per questo il fare venga sminuito di valore o addirittura dichiarato superfluo”. La conseguenza è di fondamentale importanza. La accenno per riprenderla più avanti: la nudità della tecnica è assolutamente incompatibile con la fede cristiana e, quindi, la fede cristiana è indispensabile per vincere la nudità della tecnica. Vorrei precisare meglio questa mia convinzione: la ricostituzione di un senso ricevuto e non prodotto non potrà che avvenire attraverso un recupero del Logos, della ragione, ma oggi non può essere la ragione da sola a compiere questo sforzo, deve essere la fede la quale, facendolo, salva anche la ragione. La fede può vincere il nichilismo della tecnica solo intendendosi espressione dell’Intelligenza del Principio, e quindi recuperando, con sé stessa, anche la ragione umana.
La vera portata della tecnica. Quali strade potranno percorrere i cristiani, assieme a tutti gli uomini di buona volontà, in questo grande impegno per ridare senso e orientamento alla tecnica ridotta alla sua nudità? I limiti di questo mio intervento mi permettono di fare solo due riflessioni. La prima riguarda la necessità di considerare la dimensione della tecnica oltre la tecnica stessa, di favorire una comprensione globale della tecnicizzazione, di cogliere, insomma, la vera portata della tecnica. La seconda riguarderà la teologia della creazione, vista come inizio di una cultura del ricevere prima che del fare.
Gli ambiti nei quali il magistero solitamente affronta il problema della tecnica sono quelli del lavoro, degli interventi sulla natura e della vita. Ritengo che questo sia molto importante, ma che non debba far dimenticare che oggi quella della tecnica è la vera e propria “questione sociale”. Come tale, essa non va vista limitatamente ai tre ambiti qui sopra richiamati, ma come dimensione – la tecnicizzazione appunto – dell’intera società.
Vorrei qui fare alcuni esempi: il terrorismo, una concezione tecnica della politica, la laicità intesa come luogo neutro da valori e assoluti, la democrazia come procedura, la finanziarizzazione dell’economia, il relativismo delle culture, la tecnicizzazione del diritto e dei diritti umani, sono nuovi assoluti negativi che assolutizzano la tecnica. Essi rappresentano altrettanti campi in cui è in atto il processo di tecnicizzazione. Pochi cenni possono bastare.
Terrorismo. Nei Messaggi per la Giornata Mondiale della Pace del 1 gennaio 2002 e 2003, Giovanni Paolo II aveva collegato tra loro terrorismo e nichilismo. Benedetto XVI, nel Messaggio del 1 gennaio 2006, ha ripreso questo rapporto. Egli ha sostenuto che il terrorismo può nascere sia dal fondamentalismo religioso, sia dal nichilismo. In tutti e due i casi si tratta del disprezzo della verità sia che si pretenda di possederla per intero sia che la si neghi risolutamente. Il terrorismo nasce dalla devastazione dell’animo umano e dalla svuotamento delle coscienze. Anche per il terrorista vale il principio: se si può fare si deve fare.
Politica. Una concezione tecnica della politica si ha ogni volta che la si riduce ad “amministrazione di cose” piuttosto che a “governo di persone”. Capita così quando si affida la politica agli apparati amministrativi, in dispregio del principio di sussidiarietà, quando si dimentica che i molti bisogni sono bisogni umani e richiedono interventi umani, oppure quando, come dice la Deus caritas est, si pretende di perseguire la giustizia senza la carità. La democrazia risulta tecnicizzata quando la si riduce a procedura, a dittatura della maggioranza, a rispetto delle regole convenzionali. Lo Stato e gli stessi Organismi internazionali possono essere ridotti a questa funzione e, quindi, sovrapposti alla vita anziché posti al suo servizio.
Finanza. La finanziarizzazione dell’economia è una sorta di tecnicizzazione in quanto all’economia reale, fondata sui bisogni e sul loro soddisfacimento da parte dell’apparato produttivo, si sovrappone un virtuale gioco d’azzardo, disinteressato delle ricadute sulle persone.
Culture. Le culture e i loro rapporti sono ridotti a tecnica quando si svolgono nell’indifferenza per una comune natura umana che trascende le culture e nei cui confronti le culture sono varie vie di accesso.
Diritti umani. I diritti umani sono sottoposti ad un simile processo riduzionistico quando ci si dimentica che essi sono iscritti nella comune natura dell’uomo e si presume invece di fondarli sul consenso umano e sul voto di un’assemblea.
Sviluppo. Dello sviluppo si danno, spesso, letture quantitative più che qualitative. Se è giusto compiacersi se ormai da numerosi anni l’Onu considera anche la speranza di vita, l’uguaglianza di genere e l’accesso all’istruzione primaria quali indici di sviluppo da associare al prodotto interno lordo, si deve altrettanto dire che siamo ancora lontani da una visione pienamente umanistica dello sviluppo stesso. Se, del resto, nella quasi totalità dei manuali universitari di economia politica la famiglia viene considerata solo come elemento che può incidere sulla domanda di beni e servizi – vale a dire come soggetto consumatore – significa che una visione tecnicistica dello sviluppo economico ci tiene ancora legati a formule riduttive.
Si badi poi ad un ulteriore elemento di interesse. La tecnicizzazione esasperata di questi ambiti di vita rischia di produrre un altrettanto deplorevole atteggiamento antitecnico, davanti al quale il magistero pure mette in guardia. Succede così, per esempio, che ad una visione economicistica dello sviluppo vengano opposte teorie di “decrescita” o di “doposviluppo” ossia di negazione dello sviluppo in quanto tale.
Ho fatto questi esempi per mostrare come oggi la tecnicizzazione della vita sia pervasiva e come il problema della tecnica investa settori della società tra i più diversi. Una strategia culturale che intenda contrapporsi alla nudità nichilistica della tecnica a partire dalla fede cristiana deve oggi collocarsi a questo livello di comprensione, evitando approcci settoriali al problema.
La teologia della creazione come un ricevere che precede il fare.
Provo a questo punto del mio intervento a fare una seconda proposta di linea culturale da seguire per il futuro, oltre a quella, appena formulata, dell’ampliamento della portata della tecnica. E’ la strada da percorrere per cercare la bellezza. Essa riguarda la necessità di un rilancio della dottrina cristiana della “creazione” come punto di partenza di una cultura del ricevere prima che del fare. Sono d’accordo con chi segnala una certa trascuratezza e qualche difficoltà della teologia della creazione. Lo ritengo, invece, un grande tema teologico da rilanciare e una prospettiva culturale da percorrere, estendendola come criterio dall’ambito dello stretto rapporto con la natura all’ambito più vasto dei diritti, che devono essere esercitati nell’ambito dei doveri.
La tecnica, infatti, riconduce al tema dei diritti. La nudità della tecnica riconduce al nichilismo, che è l’assolutizzazione dei diritti, oltre i legami di senso costituiti dai doveri. La tecnica come “pura possibilità di fare” coincide con l’esasperazione dei diritti. Una nuova cultura della tecnica deve quindi recuperare la priorità del dovere sul diritto e a questo scopo può essere decisiva una visione della natura – sia come cosmo che come natura umana – come “creato”, qualcosa da assumere come un compito piuttosto che da produrre con la tecnica .
La natura intesa come creazione, affermava il beato Giovanni Paolo II, è una “vocazione”. Le cose non sono solo cose, ma sono anche i significati che le legano tra loro. Per l’uomo questo ordine diventa normativo in senso morale. Da un lato la natura è un “dono” e dall’altro è un “disegno” che è stato affidato all’uomo perché collabori alla sua realizzazione. La natura, così intesa, è una “vocazione” per l’uomo: egli è chiamato a leggere nella propria natura personale, ma anche nella natura degli esseri infraumani, il disegno di Dio, a non opporvisi e a collaborare per la sua realizzazione. Questa chiamata in cui consiste la creazione, secondo Guardini, ha l’effetto di produrre la consapevolezza reale del proprio “io”: “L’uomo ha in assoluto la necessità di intendere se stesso come un io autonomo, solo perché scaturisce dalla chiamata di Dio e persiste nella forza di tale chiamata”. Ricevendo se stesso come compito assieme all’intera natura fisica, l’uomo si costituisce nella propria identità. Il peccato ha indebolito questa percezione umana del proprio compito, ma non l’ha annullata. La venuta di Cristo, comunque, in cui Dio ha assunto natura umana, si pone come inizio di un processo di ricapitolazione e di riconciliazione con Sé di tutte le cose oltre che delle persone, sanando definitivamente le carenze ed imperfezioni umane.
La vocazione del creato, che ci chiama a riconoscere una natura ricevuta prima di essere fatta, è l’appello di Dio che ci costituisce nel nostro io cosciente e ci fa percepire la nostra dignità di persona. “E’ nella risposta all’appello di Dio, contenuto nell’essere delle cose, che l’uomo diventa consapevole della sua trascendente dignità. Ogni uomo deve dare questa risposta, nella quale consiste il culmine della sua umanità, e nessun meccanismo sociale o soggetto collettivo può sostituirlo. La negazione di Dio priva la persona del suo fondamento e, di conseguenza, induce a organizzare l’ordine sociale prescindendo dalla dignità e responsabilità della persona”. Il nichilismo della tecnica propone all’uomo di essere costruttore di se stesso come “prodotto”. La fede cristiana, invece, propone all’uomo di concepirsi come “progetto”, progetto di Dio. Alla coscienza il nichilismo della tecnica propone di limitarsi a constatare le pure possibilità di fare che le si presentano davanti in tutta la loro nudità. All’io impone di non tenere conto di un “sé” come proprio ambito di significato oggettivo. Se l’uomo, così, ha solo diritti poco importa se a soddisfarli sia un apparato politico burocratico centralizzato oppure un mercato che soddisfa le voglie e trasforma i desideri in diritti. Ambedue sono espressioni della tecnicizzazione.
Cenni conclusivi Scriveva Heidegger che “L’essenza della tecnica non è niente di tecnico”. La frase è, nel bene e nel male, vera. Sia che dietro la tecnica ci sia l’uomo sia che non ci sia, la tecnica non si spiega da sé. Essa può rivelare un pieno oppure un vuoto. La tecnica, considerata nella nudità del suo essere un puro manipolare, può consumare l’esistenza nell’istante dell’operare, può a tal punto occultare la presenza umana da tradurre l’uomo in “massa”, una società burocratica che, secondo Hannah Arendt, è il “governo di nessuno”. Essa, al contrario, può rivestirsi di senso e riscattare la propria nudità, se accetta di appartenere al regno dell’agire a partire da un senso ricevuto. Dall’alto, da Dio. Sembra a me che sia questa la via, impegnativa e affascinante, della bellezza.