Messaggio per la Quaresima 2015

DIOCESI DI TRIESTE

Giampaolo Crepaldi
Arcivescovo-Vescovo di Trieste

MESSAGGIO PER LA QUARESIMA 2015

I DISCORSI DI GESÙ MAESTRO

 

Carissimi presbiteri, diaconi, consacrati e consacrate, fedeli laici della Chiesa di Trieste: “grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo” (1Cor 1,3).

Quaresima: un cammino di conversione

1. Con il Mercoledì delle Ceneri prende avvio il tempo liturgico della Quaresima, che la Chiesa ci offre per prepararci, in maniera appropriata sul piano spirituale, a fare degna e grata memoria dei misteri pasquali, quelli della passione, della morte e della risurrezione di nostro Signore Gesù Cristo. Per questo, durante il tempo della Quaresima, la Chiesa ci rivolge un continuo e pressante invito alla conversione, ricordandoci spesso le parole che Giovanni Battista prima e Gesù poi rivolsero agli abitanti di Israele: “Convertitevi perché il regno dei cieli è vicino” (Mt 3,2; 4,17).
Quando parla di conversione la Bibbia si riferisce, di solito, ad una profonda trasformazione interiore che giustifica e motiva il cambiamento di vita. La parola del Nuovo Testamento, che traduciamo con conversione, in greco è metànoia, che significa cambio di mente. Non si tratta solo di un cambiamento mentale, perché nella Bibbia la mente non riguarda solo la nostra capacità di ragionare, ma, in generale, tutto quello che avviene dentro di noi: ciò che non si vede, ma si manifesta attraverso le nostre parole e le nostre azioni. Per questo preciso motivo, Gesù ha espressamente indicato la necessità che la conversione porti frutto: “Fate dunque un frutto degno di conversione” (Mt 3,8).

2. Se intendiamo intraprendere un serio cammino di conversione, la prima cosa da fare è iniziare a coltivare la coscienza di essere peccatori. Quando viene a mancare questa coscienza, vi è il rischio di ritenere illusoriamente di non aver bisogno di conversione, con l’esito scontato di restare sempre tiepidi e mediocri nel nostro cristianesimo e nell’esperienza della fede. Ricordiamo le prime parole che dice il pubblicano quando raggiunge il tempio: “O Dio, abbi pietà di me peccatore” (Lc 18,13). Il pubblicano se ne va a casa santificato. Luca annota che non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo perché temeva di incontrare il volto di Dio. Non si sente degno di vedere Dio, ma è visto da Dio pur nella sua fragilità. E questo basta. È la stessa supplica del ladrone crocifisso accanto a Gesù sul Calvario. È un peccatore, lo ammette e Gesù risponde: “Oggi con me sarai in paradiso” (Lc 23,43). Il ladrone è il primo uomo ammesso in paradiso da Gesù proprio grazie alla sua consapevolezza di essere peccatore.

3. Quando intraprendiamo seriamente la strada della conversione, dobbiamo essere ben consapevoli che si tratta di una strada che ci deve portare verso un cambiamento di mentalità e di vita. Soprattutto, dobbiamo sapere che non possiamo essere cristiani con la mentalità del mondo. San Paolo ci ammonisce: “Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” (Rm 12,2). Al giorno d’oggi, la parola cambiamento è parola di moda e sulla bocca di tutti, qualche volta a proposito e, per la maggior parte dei casi, a sproposito. Si invoca il cambiamento su tutto e da parte di tutti. E lo si invoca con un’intonazione peculiare che ha poco a vedere con la visione cristiana della conversione e del conseguente cambiamento: a cambiare devono sempre essere gli altri o le strutture politiche, economiche, sociali, culturali… Per il cristianesimo i veri e profondi cambiamenti avvengono quando a convertirsi e a cambiare è il cuore dell’uomo. Si hanno un mondo e una società più giusti solo se ognuno si impegna a cambiare se stesso in meglio. Anche grandi scrittori hanno espresso con efficacia questa verità. Albert Camus scrisse: “Perché un pensiero cambi il mondo, prima bisogna che cambi la vita di colui che lo esprime. Che si cambi in esempio”. E Lev Tolstoi scrisse: “Tutti pensano a cambiare il mondo, ma nessuno pensa a cambiare se stesso”. Si deve partire quindi da se stessi! Cambiare dentro per cambiare ciò che è fuori di noi. La conversione è un impegno spirituale che mantiene sempre viva la tensione tra essere e cambiare. Dobbiamo, prima di tutto, essere noi il cambiamento che vogliamo vedere nel mondo!

4. Un cammino di conversione è tale perché all’inizio c’è la stupefacente scoperta dell’amore di Dio. Ci mettiamo seriamente e veramente in cammino, quando scopriamo che Dio è misericordioso. A questo proposito, San Giovanni Paolo II scrisse una pagina memorabile nella Dives in misericordia: “La conversione a Dio consiste sempre nello scoprire la sua misericordia, cioè quell’amore che è paziente e benigno… fedele… fino alla croce, alla morte e risurrezione del Figlio” (n.13). Dio è fedele al suo amore. Per questo il cammino di conversione comincia con il riconoscere il dono divino della misericordia.
Il cammino poi deve essere sostenuto e impreziosito dalle opere di carità, da un’amicizia costante con il Signore nella Parola e nel Pane eucaristico. Scrisse San Giovanni Paolo II che “l’autentica conoscenza del Dio della misericordia è una costante e inesauribile fonte di conversione… coloro che in tal modo arrivano a conoscere Dio, che in tal modo vedono, non possono vivere altrimenti che convertendosi continuamente a Lui. Vivono dunque in stato di conversione: ed è questo stato che traccia la più profonda componente del pellegrinaggio di ogni uomo sulla terra in stato di viandante (Dives in misericordia, n.13). Il cammino di conversione sfocia nella coerenza di vita: non si tratta di evitare il male, ma di fare il bene. Per questo occorre cambiare dentro, occorre lacerare il cuore e non le vesti (cfr. Gl 2,13). La vita cristiana è un continuo camminare e ricominciare, un rinnovarsi ogni giorno, facendo frutti degni di conversione (cfr. Mt 3,8).

5. In questa salutare prospettiva spirituale, per il Messaggio quaresimale ho voluto proporvi la figura di Gesù Maestro per come la possiamo cogliere in alcuni discorsi che fece, riguardanti proprio l’invito a intraprendere il cammino di conversione e il necessario cambiamento che devono stare a cuore a tutti noi che ci qualifichiamo come discepoli suoi e suoi seguaci. Si tratta di veri e propri discorsi in cui i discepoli hanno sintetizzato la dottrina che il Maestro insegnava loro, soprattutto quando essa apriva nuove prospettive nel mistero di Dio e sul suo disegno salvifico. Leggendo questi discorsi, si può dire che se Gesù era la Parola fatta carne, i discepoli erano, da parte loro, l’ascolto della Parola di Dio, fatta carne.

Il discorso delle Beatitudini (Mt 5,1-2)

6. Quando si comincia a sfogliare il Vangelo ci accorgiamo che Gesù rivolge alle folle una parola di gioia. Infatti, il suo discorso programmatico si apre con la parola Beati… o Felici[1]…, che ricorre per ben otto volte. E – cosa assai sorprendente – ad essere proclamati beati o felici sono i poveri, gli afflitti, i miti, gli affamati e gli assetati, i misericordiosi, i puri di cuore, i pacifici, i perseguitati. Gesù si rivolge a coloro che in questo mondo sono costretti o destinati all’infelicità. L’intera storia umana è lì a documentarci quanto sia crudele e inesorabile la pressione che cerca di stritolare gli inermi. Il Maestro, con il suo discorso delle beatitudini, annuncia che il cerchio crudele di questo mondo è spezzato, perché vi è entrato Lui, il Figlio di Dio, e perché intende condurre con sé fino al Padre, nel Regno dei cieli, tutti coloro che a Lui si affidano. Sulla terra c’è dunque questo paradosso vivente: il Figlio è venuto a collocarsi tra i poveri, i miti, gli afflitti, gli affamati e gli assetati, i pacifici, i puri di cuore, i misericordiosi, gli oltraggiati. È venuto ad abbracciarli, ad addossarsi le loro infermità, a condurli pazientemente al Padre: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita” (Mt 11, 28-29).

7. L’esperienza dei primi discepoli – e poi quella di moltissimi santi, fino ai nostri giorni – ha documentato che è davvero possibile condividere le beatitudini del Figlio di Dio fatto uomo, dentro ogni condizione, anche la più difficile e tragica. Scrisse San Paolo circa il suo essere cristiano: sembriamo “…come afflitti, ma sempre lieti; come poveri, ma capaci di arricchire molti; come gente che non ha nulla e invece possediamo tutto!” (2Cor 6,10); “Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione” (2Cor 7,4). E San Giacomo scrisse: “Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove” (Gc 1,2).
E come non ricordare qui che le beatitudini furono il programma di vita di una schiera straordinaria di santi e di sante: la povertà felice di Francesco d’Assisi e di Giovanni della Croce; la misericordia beata di Camillo de Lellis e del Curato d’Ars; la purezza di cuore di Luigi Gonzaga, Maria Goretti e Teresa di Lisieux; l’afflizione di Benedetta Bianchi Porro e di Gianna Beretta Molla; la mitezza struggente di Bernadette Subirous e di Luigi Martin; la forte azione pacificatrice di Caterina da Siena e di Francesco di Sales; la fame e sete di giustizia di Giovanna d’Arco e di Vincenzo dé Paoli, la persecuzione gloriosa subita da Giusto, Tommaso Moro, Massimiliano Kolbe e Francesco Bonifacio. I beati del cielo sono “una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua” (Ap 7,9).

Il discorso della nuova legge (Mt 5-7)

8. Il discorso della nuova legge (detto anche discorso evangelico o discorso della montagna) è un raccolta di insegnamenti, di sentenze, di esempi, di proverbi che gli Apostoli hanno raccolto dalla bocca di Gesù e che riguardano l’ampio arco dei comportamenti umani. L’uomo viene giudicato nel suo modo di atteggiarsi verso Dio e verso il prossimo. Vengono messe in discussione le leggi, da quelle sacre a quelle sociali, che valevano in quel tempo e viene indicata come nuova legge lo sguardo di Gesù: uno sguardo profondo, capace di giungere al cuore di Dio, degli uomini e delle cose. Si può dire che la nuova legge è ora la Persona stessa di Gesù: in Lui si esprime tutta la volontà di Dio nei nostri riguardi.
Aderendo a Lui e amando Lui abbiamo il desiderio e la forza di eseguire ogni suo comando. La Persona amata è legge per chi ama. In questo breve Messaggio quaresimale non è possibile riportare e illustrare i contenuti del discorso della legge nuova di Gesù. Sono ad invitarvi quindi a leggere i capitoli 5, 6 e 7 del Vangelo di Matteo. Tuttavia è bene soffermarsi brevemente su alcuni temi di particolare importanza presenti nel discorso di Gesù: il tema della preghiera, quello dell’amore ai nemici, quello del matrimonio.

8.1 La preghiera (Mt 6, 5-15). Per Gesù, pregare non è un ostentare la propria pietà, non è neppure un blaterare per costringere Dio ad ascoltarci. La preghiera è come l’amore: è il dialogo con Colui da cui sappiamo di essere amati, come diceva Santa Teresa d’Avila. La preghiera cristiana non è quindi un tentativo spontaneo di convincere Dio a darci ciò che desideriamo. Essa si fonda piuttosto sulla certezza di essere esauditi, allo stesso modo che un figlio è certo di ottenere dal Padre che lo ama, tutto ciò di cui ha veramente bisogno. “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto” (Mt 7,7). E San Paolo ribadisce: “Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui?” (Rm 8,32).
Il cristiano impara a pregare osservando Gesù che si rivolge al Padre con totale abbandono, e impara da Lui che cosa sia conveniente domandare: “Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: “Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli”. Ed egli disse loro: “Quando pregate, dite: Padre…” (Lc 11, 1-2). Padre, Abbà: la prima cosa che Gesù insegnò ai suoi discepoli fu proprio il nome Padre, che era allora inaudito, dato che invocava Dio alla stessa maniera con cui i bambini piccoli si rivolgevano al loro papà.

8.2 L’amore ai nemici (Mt 5, 44-45; Lc 6, 27-28). “…amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male” (Lc 6, 27-28). Queste parole di Gesù sono giustamente considerate come il vertice della legge nuova, un vertice che solo il Padre celeste può indicare. È proprio dalla prospettiva del Padre celeste che si può percorrere la strada dell’amore ai nemici. Chiamare Dio con il nome di Padre comporta questa impegnativa conseguenza: il mondo è la sua casa, la sua famiglia, ed essa contiene anzitutto figli, non amici e nemici. Che i figli possano diventare nemici è il dramma davanti a cui è posto prima di tutto il Padre celeste; dal suo punto di vista, c’è una sola e costante preoccupazione, quella di ricostruire la fraternità tra e dei suoi figli. Per questo è venuto Gesù, figlio eterno di Dio e nostro fratello primogenito; “Egli infatti è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia, per mezzo della sua carne” (Ef 2, 14), per ricostruire l’unità della famiglia umana con un solo Padre, un solo spirito, una sola fede, un solo battesimo, un solo corpo, un solo pane. Ed Egli ha cominciato a realizzare ciò dando per tutti la sua vita, e versando per tutti il suo sangue. Padre “perché siano una sola cosa come noi…” (Gv 17, 22), “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno” (Lc 23, 34): queste sono le ultime preghiere di Gesù e l’ultimo suo sguardo misericordioso sul mondo.

8.3 Rinnovare il matrimonio (Mt 5,27; 31-32; 19,19). “Non avete letto che il Creatore da principio li fece maschio e femmina e disse: Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne ? Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto” (Mt 19, 4-6). Sulla visione del matrimonio e su i suoi problemi – oggi tanto dibattuti anche tra i seguaci di Gesù –con questa sua perentoria affermazione che cosa intende comunicarci il Maestro? Prima di tutto e soprattutto, Egli ci invita ad andare al principio, dove è possibile cogliere i tratti del disegno buono e sapiente del Padre che, in breve, sono questi:

– l’amore e il dono di sé sono lo scopo di tutto ciò che esiste;

– la carne è custode della persona e del dono della persona;

– ogni essere umano esiste per un altro e con un altro;

– ogni essere umano è destinato a venire al mondo dal di dentro di un altro essere umano.

Alla creazione corrisponde la pro-creazione: esperienza in cui l’unione dell’uomo e della donna si rendono ogni volta disponibili al gesto creatore di Dio. E non si può mai dividere ciò che Dio ha unito perché Dio non conosce la divisione e la separazione, ma solo quella diversità tra maschio e femmina che è nella natura del creato affinché l’unità sia celebrata e sempre più approfondita. In questa prospettiva – impegnativa, ma bella e liberante – si capisce perché il matrimonio diviene sacramento e la famiglia piccola Chiesa: è il modo per indicare e trasmettere la grazia risanante che il Figlio di Dio ci ha meritato.

Il discorso del giudizio finale (Mt 25, 31-46)

9. Tradizionalmente si è sempre interpretato questo brano del Vangelo nella direzione di identificare Gesù con i poveri, gli affamati, gli assetati, i forestieri, gli ignudi, i malati e i carcerati. Si tratta di un’interpretazione sostanzialmente corretta e valida, ma limitata. Infatti gli studiosi e gli esegeti della Bibbia, opportunamente, ci invitano ad allargare lo sguardo e a leggere il testo in senso ecclesiologico. Cosa ci vogliono dire? In breve, ci mettono in guardia dal pericolo di cadere in una lettura filantropica di questo discorso di Gesù, lettura che sarebbe completamente fuori luogo. Di fatto, quando giunti alla fine della vita, come cristiani ci presenteremo davanti al Padre eterno, tutto dipenderà dal fatto che Gesù possa essere fiero di noi e possa presentarci a Lui con gioia. “Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli” (Mt 10, 32-33).

10. Questo testo contenuto nel cap. 10 del Vangelo di Matteo è, di fatto, il testo più puntuale sul giudizio finale dei cristiani. Il testo contenuto al cap. 25, invece riguarda il giudizio finale di coloro che, senza conoscere Cristo, hanno trattato con misericordia o senza misericordia i fratelli più piccoli del Signore; riguarda, in definitiva, il giudizio sul concreto trattamento riservato ai cristiani da parte dei non cristiani. In questa logica – assai singolare, ma anche molto innovativa e stimolante – le nazioni, cioè i pagani, sono invitate ad accogliere i discepoli di Gesù che predicano loro il Vangelo e soffrono per esso, come se stessero accogliendo lo stesso Gesù. Il racconto dice in fondo quello che poi San Paolo spiegherà così: la Chiesa – cioè la comunità dei discepoli di Gesù – è corpo di Cristo; essa prolunga nel tempo e nello spazio l’umanità di Cristo; Cristo ama la sua Chiesa come se stesso; tutto quello che gli uomini fanno a favore o contro la Chiesa è fatto a Cristo. Perciò, è nella Chiesa che accade ogni giorno il giudizio del mondo.

Il discorso di addio (Gv 13, 31-17,26)

11. Sappiamo bene che il nucleo originario del Vangelo è costituito dall’annuncio della risurrezione di Cristo – fu questo, infatti, il primo miracolo che i discepoli gridarono al mondo -, seguito subito dopo dai racconti della passione. Solo in un secondo momento si aggiunsero i racconti riguardanti la vita pubblica di Gesù, e poi quelli riguardanti la sua infanzia. I discepoli quindi proclamarono con particolare solennità il cuore del messaggio cristiano: il Figlio di Dio ha dato per noi la sua vita. Meglio ancora: il Figlio di Dio ci ha dato la sua stessa Vita, e noi ora viviamo per Lui e in Lui. Ai racconti della passione e della risurrezione, l’evangelista Giovanni ha premesso un lungo discorso di addio, descrivendoci la sera del giovedì santo come il momento della più alta, tenera e intima rivelazione dell’amore che Gesù provava per i suoi discepoli. Sono dei messaggi di grande bellezza e profondissima pace, che si proiettano non solo verso la risurrezione, ma anche verso la vita futura della Chiesa, sino alla fine dei tempi. Proviamo a prendere in considerazione alcuni di questi messaggi.

11.1 Verso la casa del Padre (Gv 13, 31-14,31). In questo discorso Gesù spiega ai discepoli che la sua imminente passione non è una sconfitta né un fallimento. Spiega che il cammino che Egli sta per intraprendere, anche se dolorosissimo, lo condurrà al Padre: là Egli preparerà un posto anche per i discepoli. Gesù rivela inoltre, prima di morire, come il legame che lo unisce al Padre non sia in realtà un sentimento, ma sia una Persona: è lo Spirito Santo; è un Consolatore che offre continua assistenza; è una Presenza intima che abiterà nell’anima dei discepoli; è un Maestro interiore che aiuta a ricordare e approfondire l’insegnamento di Cristo. Lo Spirito Santo che unisce Gesù al Padre si estenderà così anche a noi suoi discepoli, al punto che ognuno diverrà come una dimora vivente del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Nel corso della storia questa intima e ineffabile presenza delle Tre Persone divine trasparirà da due segni:

– dal fatto che i discepoli osserveranno il nuovo comandamento di amarsi come Gesù li ha amati;

– dal fatto che essi godano di una pace unica al mondo, quella che solo Cristo può dare.

11.2 Rimanere in Gesù (Gv 15, 1-27). Prima di morire Gesù racconta un’ultima parabola, quella della vigna di Dio e ne dà anche una puntuale spiegazione: “Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore” (Gv 15,1). I discepoli sono evidentemente i tralci, ed è ovvio che i tralci, per portar frutto, devono restare attaccati alla vite. Non è una questione ascetica o morale. È una necessità ontologica. Strappato dalla vite, il tralcio “viene gettato via… e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano” (Gv 15,6). Senza di me non potete fare nulla, spiega Gesù con una formula assoluta che non ammette eccezione alcuna. Ancora, rimanete in me (cfr. Gv 15,7) e rimanete nel mio amore (cfr. Gv 15,9). Da quando i discepoli l’hanno incontrato per la prima volta, rimanere è il verbo privilegiato che racconta il nesso vitale che si è instaurato tra Gesù e loro: tutto dipende, ormai e per sempre, da una reciproca immanenza. Gesù deve restare nei discepoli, i discepoli devono restare in Gesù, e tutti devono restare nell’abbraccio trinitario. Ciò non vuol dire essere tolti dal mondo. I discepoli resteranno nel mondo, destinati a un inevitabile rigetto e a violente persecuzioni, ma mai mancherà loro il sostegno dello Spirito Consolatore.

11.3 Camminare con lo Spirito Santo (Gv 16, 1-33). Durante la passione, i discepoli vedranno il loro Maestro sottoposto a giudizio e condanna. In realtà è il mondo che sta per essere giudicato in tutta la sua malvagità. E questo è un paradosso che si perpetuerà nella storia: alla passione di Gesù seguirà inevitabilmente anche la passione dei discepoli (cfr. Gv 16,1-4), ma lo Spirito Santo terrà sempre in evidenza questo giudizio divino, e non permetterà mai che il mondo si convinca d’aver riportato vittoria. L’esperienza dei discepoli nel mondo avrà allora una particolare caratteristica: dovendo annunciare il mistero della morte di Cristo la vita sembrerà a volte faticosa e dolorosa, tanto più che il mondo offrirà invece l’ideale di un facile godimento. Ma sarà come quando una donna deve partorire: sa di andare incontro alla sofferenza, ma attende ancor più la gioia della nascita. Questa deve essere la quotidiana certezza dei discepoli del Signore Gesù: che viene al mondo un uomo nuovo, e che la loro gioia è custodita da Cristo stesso, e dipende dal rapporto con Lui. Di fronte a questa strabiliante e consolante prospettiva possiamo affermare che tutta la vicenda umana è contenuta dentro un flusso d’amore che nasce dal Padre celeste e a Lui ritorna. Dice Gesù a questo proposito: “Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio di nuovo il mondo e vado al Padre” (Gv 16,28).

11.4 La preghiera di Gesù per quelli che crederanno in Lui (Gv 17, 1-26). Il testamento che Gesù lascia prima di morire è una preghiera che Egli fa al Padre per noi e, quindi, ci riguarda in maniera del tutto speciale. Dice: “Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola” (Gv 17,20). Dalle sue parole noi comprendiamo d’essere oggetto di un eterno scambio d’amore: noi eravamo del Padre e il Padre ci ha affidati al Figlio suo Gesù. Il Figlio è venuto dunque a prenderci, a manifestarci il volto e le preoccupazioni del Padre celeste. Ci ha comunicato le sue parole, ci ha coinvolto nella sua obbedienza, e ora – prima di morire – ci restituisce al Padre. Anche se restiamo nel mondo e sembra che il Figlio ci venga tolto, noi siamo sempre custoditi dall’amore indefettibile del Padre celeste. Gesù, inoltre, prega affinché noi sappiamo riprodurre nel mondo, tra noi discepoli, quel celeste mistero di unità in cui siamo stati coinvolti: “Padre santo, custodiscili nel tuo nome, quello che mi hai dato, perché siano una sola cosa, come noi” (Gv 17,11). Dobbiamo essere uniti tra noi come il Padre e il Figlio lo sono tra loro. In tal modo potremo anche essere inviati al mondo, come lo è stato Cristo, segnati e autenticati dal sigillo della divina unità: “E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano una sola cosa come noi siamo una sola cosa. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo conosca che tu mi hai mandato e che li hai amati come hai amato me” (Gv 17,22-23).

Conclusione

12. Carissimi fratelli nel sacerdozio, diaconi, religiosi/e, consacrati, catechisti e fedeli tutti, i discorsi di Gesù sono un’impareggiabile e un’indispensabile bussola capace di orientarci, nel migliore e nel più sicuro dei modi, verso un fecondo cammino di conversione per come ci è chiesto dalla Chiesa in questo tempo di Quaresima. Letti con attenzione, meditati con animo disponibile, pregati per le suggestioni spirituali che suscitano nelle nostre anime, essi ci convertono all’incontro, all’incontro con Cristo. I suoi discorsi, in definitiva, sono frutto dell’amore con cui Gesù parlava e dell’amore con cui i discepoli lo ascoltavano. Al di fuori di tale reciprocità amorosa, i discorsi di Gesù sembrano duri e anche incomprensibili. Ma dentro questo rapporto di amore, essi scendono nei nostri cuori di discepoli di Gesù Maestro e portano frutti di fede, di speranza e di carità. Sono pertanto ad esortarvi ad affidare alla Vergine Maria – la Madre che si fece discepola di Gesù Maestro anche nell’ascolto dei suoi discorsi – i buoni propositi di conversione che vogliamo compiere per rendere autentico il tempo della Quaresima. Sia Maria – che in questo periodo finale del Sinodo diocesano è pellegrina nelle parrocchie della nostra Chiesa – la nostra Maestra che ci insegna il Vangelo delle beatitudini, del coraggio, della pazienza e dell’unità. Vi benedico tutti e di cuore.

 

Trieste, 18 febbraio 2015, Mercoledì delle Ceneri

 

[1]La parola “felice” ha la stessa etimologia di molte altre parole legate all’esperienza della generazione come femmina, feto, figlio, fecondo. Essa originariamente indica sia la gioia di chi genera sia quella del bambino tra le braccia della madre. L’infelicità nella sua radice è dunque sterilità, solitudine, è privazione di frutto, è identità senza rapporto con un tu.