Cattedra di San Giusto. L’incontro con la Comunità di Taizé

Le domande della vita, la risposta della fede

 Frère John di Taizé

Trieste, 13 marzo 2013

Sono felice di essere con voi in questo “anno della fede”, per riflettere insieme sul significato che potrebbe avere la nostra fede nel mondo in cui viviamo. Farò per necessità questa riflessione a partire dalla mia esperienza personale, quella di un membro di una comunità monastica, internazionale ed ecumenica, che da tanti anni accoglie giovani da tutto il mondo per un’esperienza di preghiera, di riflessione e di comunità. Ma siccome uno dei miei compiti a Taizé è di introdurre le persone che vengono al messaggio biblico, prima di parlare della fede oggi, vorrei cominciare con una domanda più essenziale. Che cos’è, tutto sommato, questa fede che sta alla base del nostro essere cristiani?

La domanda è essenziale, ma più difficile di quanto non sembri. (Qui sto parlando non della fede come contenuto – fides quae creditur – ma dell’atto stesso della fede – fides qua creditur.) Nella teologia cristiana quest’atto, insieme con la speranza e l’amore, è considerato una “virtù teologale”. Secondo il catechismo della Chiesa cattolica, è uno dei doni che “rendono le facoltà dell’uomo idonee alla partecipazione alla natura divina [e] dispongono i cristiani a vivere in relazione con la Santissima Trinità. Hanno come origine, causa ed oggetto Dio Uno e Trino” (no. 1812). Si parla della fede come dono di Dio, ma in pratica si pensa quasi sempre ad un atteggiamento umano. E poi, da dove viene questo dono? Perché gli uni l’hanno e gli altri no? E se la fede ci introduce nella vita di Dio stesso, dobbiamo dire che in Dio ci sia la fede come in c’è l’amore? Tante domande che non trovano facilmente una soluzione nella nostra maniera abituale di affrontare il problema.

Un ritorno alle Scritture ci offre una via d’uscita. Lì scopriamo che non bisogna partire dalla nozione di “credere”, di “dare fiducia a qualcuno o a qualcosa” per capire la fede. Se cominciamo non con il sostantivo greco pistis o il verbo pisteuō ma con l’aggettivo pistos, vediamo che il senso primario è “affidabile”, si tratta di una persona o di una cosa che è salda, stabile, autentica, su cui si può appoggiarsi o fare affidamento. Questo, ovviamente, descrive innanzitutto Dio. In ebraico, l’equivalente della pistis è la radice aman, che ci dà l’espressione “Amen” (È così!) ma anche la parola emet, che si traduce con “fedeltà” o “verità”, e fa parte del nome di Dio (vedi Esodo 34,6, ricco di amore e di fedeltà). È questo il Dio che cantiamo nei Salmi:

Signore, mia roccia, mia fortezza, mio liberatore, mio Dio, mia rupe, in cui mi rifugio; mio scudo, mia potente salvezza e mio baluardo. (…) Chi è roccia, se non il nostro Dio? Il Dio che mi ha cinto di vigore e ha reso integro il mio cammino. (Salmo 18,3.32s)

Tutti gli altri significati di questo vocabolario vengono da lì. Se Dio è l’unica realtà sicura, vera, stabile, allora vuol dire anche che è fedele: se è sempre uguale a sé, pienamente sé stesso, non potrà cambiare neanche i suoi atteggiamenti verso gli altri. Poi, quando troviamo una realtà affidabile in questo senso, anche sul piano umano, siamo portati a fare affidamento su di essa, a metterci la nostra fiducia, a credere. Quindi la fede non è da capire come una realtà scesa dal cielo un giorno, non si sa bene come, ma la nostra fede è una risposta alla scoperta di qualcosa di assolutamente vero, sul quale si può contare sempre. Nel linguaggio delle parabole di Gesù, è la roccia sulla quale si può costruire la nostra casa, è il tesoro per il quale vale la pena vendere tutto per comprarlo. Che contrasto con il mondo odierno, che spesso sembra come il mare agitato dal vento, dove nulla rimane fermo!

Nel Nuovo Testamento, i discepoli hanno scoperto questa roccia, questo tesoro, nella persona di Gesù stesso, nelle sue parole e nei suoi gesti. “Non abbiamo mai visto nulla di simile!” (Mc 2,12) Per questo erano disposti a lasciare tutto per seguirlo, anche senza sapere dove andavano. Si sentivano più sicuri camminando con lui verso lo sconosciuto, che in una vita ordinata che avrebbero scelto loro stessi. Facendo questo, sono diventati a loro turno segni di quest’Assoluto di Dio in mezzo agli altri. Chi fa affidamento su una realtà sicura, ferma, partecipa alla sua sicurezza e fermezza.

Questo vuol dire che, per capire il ruolo della fede nella nostra esistenza, dobbiamo partire non da un atteggiamento interiore che abbiamo o non abbiamo, ma da una Realtà che non s’identifica con noi ma che ci offre un luogo dove riposare il nostro cuore, una base che dà senso e consistenza alla nostra vita. In questo senso frère Alois, il priore di Taizé, ha potuto scrivere quest’anno:

Credere in Dio, avere fiducia in lui, è far affidamento su di lui. Avere la fede non significa poter spiegare tutto o avere una vita più facile, ma trovare una stabilità e un punto di partenza. (…) Nessuno può vivere senza sostegno e, in questo senso, tutto il mondo crede in qualche cosa. Gesù ci invita ad affidarsi a Dio, come ha fatto lui e perché lo ha fatto lui. (Proposte 2013)

 

Una vita che diventa segno

Quasi 75 anni fa, un giovane svizzero che si chiamava Roger si rendeva conto che il messaggio cristiano non toccava più la vita della gente come si poteva sperare. Ormai, in Europa, tutti o quasi avevano sentito parlare di Gesù Cristo, della Chiesa, eppure non sembrava essere per loro questo tesoro che cambia tutta un’esistenza. E lui constatava che un gran ostacolo al messaggio cristiano era l’individualismo crescente nella società, che rappresentava una perdita di tante energie spirituali. Per lui, il cristianesimo non era una teoria, ma una vita, e una vita che diventa di per sé segno per gli altri. Poi si è chiesto, ancora giovane: quale segno possiamo vivere che farebbe capire questa vita della fede, al di là delle parole? Ora, guardando le pagine del Nuovo Testamento, diventa palese che il primo segno in questo senso è l’esistenza di una comunità che vive una doppia comunione – comunione con Dio nella preghiera e comunione con gli altri attraverso una vita condivisa, spiritualmente e materialmente.

Questo ha portato l’uomo che sarà conosciuto come frère Roger a investigare la grande tradizione monastica della Chiesa. Venendo da una famiglia riformata, l’idea della “vita religiosa” non gli era tanto nota. Ma il giovane Roger vedeva a poco a poco che una comunità d’impostazione monastica poteva costituire una risposta alla sua domanda su come trasmettere la fede in una società dove il cristianesimo sembrava appartenere già al passato.

Sognando così una vita monastica, frère Roger si apriva a una grande tradizione della Chiesa indivisa, ancora presente nelle Chiese cattolica e ortodossa. In questo senso, già dall’inizio lui guardava oltre la vita della sua Chiesa d’origine per cercare punti comuni con l’insieme dei credenti in Gesù Cristo. Si potrebbe quindi dire che una dimensione ecumenica faceva parte dell’esistenza di Taizé già dall’inizio. Venendo a Taizé, frère Roger non aveva il progetto di fondare un “monastero protestante” in parallelo ai monasteri cattolici e ortodossi: voleva incarnare nella vita di alcuni uomini un segno concreto che viene dalla fede in Gesù Cristo. Lui usava volentieri l’espressione “parabola”: la comunità di Taizé doveva essere una “parabola di comunione” che avrebbe aiutato le persone a scoprire il tesoro della fede, quasi senza parole. “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35). E questo amore è molto di più di un sentimento: è una condivisione della vita spirituale e materiale.

Faccio qui una parentesi. Nei primi anni della nostra epoca, ciò che colpiva i contemporanei dei primi cristiani era una novità storica, l’esistenza di uomini e donne di diversi paesi, lingue, religioni e strati sociali che, a causa di Cristo, vivevano insieme come dei membri di una sola famiglia. Poi, più tardi, quando il cristianesimo è diventato religione della società intera, questa dimensione di segno è stata messa un po’ in ombra. Col tempo, la caratteristica che definiva i cristiani non era più la qualità della loro vita comune. In più, con l’inizio dei tempi moderni e le divisioni ecclesiali, l’identità battesimale è stata spesso oscurata dall’identità confessionale. Esagerando un po’, ci si potrebbe dichiarare cristiani professando una serie di dottrine diverse dagli altri credenti, anche vivendo esattamente nella stessa maniera di tutti gli altri membri della società. Possiamo chiederci se questa situazione non è uno dei motivi dell’eclissi che sta subendo la fede nel mondo odierno.

Una comunità internazionale ed ecumenica

Oggi, la comunità di Taizé è formata da un centinaio di uomini di più di venticinque paesi diversi – cattolici, anglicani, luterani e riformati. Non abbiamo in nessuna maniera la presunzione di dire che abbiamo risolto tutte le differenze fra i credenti in Gesù Cristo, ma è nostra convinzione che i cristiani debbano già celebrare ciò che li unisce, per poter affrontare insieme le differenze che li separano ancora e per diventare un segno dell’amore di Dio nel mondo. Frère Roger ne era convinto: se aspettiamo il giorno in cui avremo risolto tutti i problemi, teologici e altri, per cercare una riconciliazione, quel giorno non arriverà mai. Bisogna già cominciare a riunirsi nel nome di Cristo, e Dio ci aiuterà a trovare i passi successivi verso un’unità più piena.

La nostra comunità sa da sempre che non esiste solo per gli uomini che ne fanno parte. Mi sono già riferito alla nozione di “segno” o di “parabola”. Vogliamo vivere una parabola di comunione che può parlare ad altri, senza parole se necessario. Per questo motivo, dai primi anni dei fratelli non sono rimasti a Taizé, ma andarono in piccoli gruppi a trovare delle persone attraverso il mondo, soprattutto in situazioni di bisogno o di divisione. Oggi, queste “fraternità” si trovano in Brasile, Bangladesh, Corea del Sud, Senegal e Kenia. Non vanno con un progetto preciso ma per ascoltare, per essere una presenza di pace e di amicizia in mezzo agli altri. Due di questi gruppi si trovano in paesi musulmani. È il nostro piccolo contributo al dialogo interreligioso, non tanto a livello istituzionale o intellettuale, ma attraverso un cammino insieme con gente spesso povera proveniente da altre tradizioni religiose. In Bangladesh, per esempio, i fratelli fanno molto con le famiglie di bambine con disabilità, ciò che lì è spesso visto come una vergogna, e fra questi genitori non c’è distinzione di religione: sono cristiani, musulmani e indù con le stesse difficoltà e le stesse speranze.

Certo, oggi la comunità di Taizé è conosciuta prima di tutto per il suo lavoro con i giovani. Forse non tutti sanno che questo non è stato lo scopo della comunità dal primo giorno; è venuto più tardi, come risposta alla venuta dei giovani sulla collina di Taizé a partire degli anni sessanta. Nell’afflusso dei giovani in ricerca, frère Roger ha visto un “segno dei tempi”, una realtà da prendere sul serio. In un tempo di frattura fra le generazioni, lui era convinto della necessità di mettersi all’ascolto di questa gioventù e condividere con loro ciò che per noi sta più a cuore: un’esperienza di comunione con Dio nella preghiera e di comunità fra persone di varie provenienze. Questo tentativo ha fatto nascere, prima, un “concilio dei giovani” e poi, un “pellegrinaggio di fiducia sulla terra” che ci porta alla ricerca di una “nuova solidarietà” con tutti.

Dopo quasi mezzo secolo, i giovani continuano a venire sulla collina di Taizé, in genere per il soggiorno di una settimana. Fanno un’esperienza di preghiera, di approfondimento biblico, di lavoro e di scambio. Certo, i giovani del 2013 non sono quelli del 1968, né del 1989, perché la società in cui crescono non è la stessa. Ma scavando un po’ sotto la superficie, troviamo in loro la medesima ricerca di un senso alla loro vita, stanno cercando anche loro la perla preziosa che permette una vita piena e significativa. E noi vorremmo rendere testimonianza a questa perla, in primo luogo attraverso la nostra vita.

Un mondo che cambia

La gente ci chiede spesso quali sono le caratteristiche dei giovani di oggi, rispetto a quelli degli anni passati. È chiaro che in questo campo, bisogna essere molto prudenti ed evitare delle generalizzazioni precipitate. Le persone sono sempre uniche, non riducibili a un denominatore comune. Ciò nonostante, è ovvio che i grandi cambiamenti della società cambiano anche lo stile personale delle sue membra. Oggi, stiamo andando a passi frettolosi verso un mondo sempre più frammentato. Il predominio dell’economico sul tutto il resto – il politico, il culturale, lo spirituale – sta creando un pubblico di consumatori non più ispirato da una visione comune, sia ideologica che religiosa, ma attaccato a valori più privati, per non dire individualisti: il conforto, la sicurezza, il benessere… E il livello di benessere raggiunto, almeno nella maggior parte delle nostre società occidentali, crea una paura di perdere il già ottenuto, mentre allo stesso tempo si notano un crescente disagio e il sentimento che stiamo camminando su una strada sbagliata.

I giovani cresciuti in questo clima sono più fragili dei loro predecessori. I legami familiari sono più deboli, quindi sono più alla ricerca di un luogo dove possono riposare il loro cuore, dove si sentono ascoltati e accettati per ciò che sono. Il messaggio fondamentale della fede cristiana, quello di un Dio che è affidabile, che mi ama per primo, gratuitamente, che non mi abbandonerà mai e che mi chiama ad una comunione di vita con lui, non potrà forse parlare a questi ragazzi in maniera particolarmente forte? Ma ciò significa che non lo trasmettiamo soltanto attraverso le parole, necessita che i credenti, e le loro comunità, siano persone e luoghi di ascolto, di amicizia, di apertura, in una parola di fiducia.

Il mondo contemporaneo rende molto difficile tutto ciò che è dell’ordine della continuità. La mia generazione vedeva facilmente la vita come un cammino, dove si fanno tante esperienze, positive e negative, attraverso le quali si può sempre imparare qualcosa, che ci aiutano a crescere. In questo senso, frère Roger poteva chiamare ciò che viviamo con i giovani un “pellegrinaggio di fiducia sulla terra”. Pellegrinaggio: ci si mette in cammino verso una meta, come Abramo, come Mosé e il popolo d’Israele nel deserto, come Gesù sulla strada di Gerusalemme, luogo di morte e di risurrezione. Le tappe potevano essere molto diverse, ma c’era sempre la consapevolezza di andare da qualche parte, che esiste un legame fra tutti i vari momenti e fra tutti quelli che intraprendono la strada.

Ora (e forse noi più anziani non ce ne rendiamo conto ancora) ho l’impressione che, spontaneamente, i giovani vedono sempre di meno la vita così. Per loro l’esistenza offre piuttosto un’infinità di possibili scelte senza legame fra di loro, come i tasti sullo schermo dei nuovi telefonini, gli “smart phones”, o come tutti i canali della televisione che si può prendere via satellite. Si può passare un’esistenza intera navigando fra le varie possibilità senza mai arrivare alla fine. E siccome non è manifesta nessuna logica che unisce il tutto, alla fine si rischia di trovarsi allo stesso punto che all’inizio. Paradossalmente, la quantità delle scelte possibili porta spesso alla paralisi e alla passività.

Ritrovare il gusto della vita

Come testimoniare alla fede a persone in questa situazione? E soprattutto, come trasmettere la nozione d’impegno, di una scelta che sembra togliere la mia libertà ma in realtà deve mettermi su una strada per costruire qualcosa di bello e di concreto? Sappiamo tutti che l’idea di un impegno di vita, sia nel matrimonio che nella vita consacrata, è in crisi ormai da un po’ di tempo. Non serve a nulla lamentarsi, oppure limitarsi a ricordare le regole, la legge; bisogna rendersi conto che si tratta di un mutamento di società al di là delle singole persone, che semplicemente non percepiscono le cose come prima. Ci vuole un nuovo approccio.

A Taizé siamo alle prese con questa problematica, quando si tratta di riflettere con i giovani cosa portano a casa dopo una settimana passata sulla nostra collina. Questa domanda non è mai stata facile, non è facile vedere il legame fra un’esperienza d’intensità e la cosiddetta banalità della vita quotidiana. Ma oggi è più difficile che mai, perché si ha veramente l’impressione che in molti casi la domanda non si ponga. Perché ci dovrebbe essere una continuità fra due mondi così diversi? Faccio una bella esperienza, ora torno a casa e vivo lì, l’anno prossimo magari farò un’altra esperienza altrove, e così via.

Va da sé che noi non abbiamo la risposta a questo problema, ma voglio concludere le mie riflessioni indicando due piste che mi sembrano importanti. La prima è questa: se noi che abbiamo fatto una scelta per Cristo la viviamo di maniera coerente, con gioia, allora noi testimoniamo che la fedeltà a una vita ben precisa non toglie la felicità e può essere fonte di una vera libertà interiore. A Taizé i giovani vedono dei fratelli, alcuni non molto più grandi di loro, che hanno fatto questa scelta, e sapranno che questa comunità sarà là, anno dopo anno, non sparirà di giorno in giorno. Vivendo con noi loro, spesso senza saperlo, toccano qualcosa della pistis di Dio, la sua affidabilità, la sua fedeltà.

In questo periodo, stiamo tentando di creare una continuità in un altro modo ancora. Nel 2012 frère Alois ha scritto una lettera intitolata “Verso una nuova solidarietà” e ha annunziato un incontro a Taizé nell’agosto del 2015, dopo tre anni e mezzo di preparazione, per mettere insieme ciò che abbiamo trovato. Speriamo che questo periodo, in cui ritorniamo agli stessi temi, aiuterà le persone a capire che tutto non è dato all’istante, che per realizzare qualcosa di bello c’è sempre bisogno di una maturazione.

Poi, la seconda pista. Ritorniamo alle parabole della perla e del tesoro. In quelle immagini Gesù ci fa capire che non c’è un’opposizione fra un’esperienza intensa, puntuale, e la continuità dell’esistenza. L’uomo che scopre il tesoro fa un’esperienza così forte che ha delle conseguenze per tutta la sua vita: va e vende tutto ciò che possiede per comprare il campo. O, cambiando l’immagine, possiamo pensare a Mosé davanti al roveto ardente. L’incontro con Dio, se è autentico, mette l’uomo in rapporto con l’eternità e abolisce l’effetto distruttivo della durata. Lo inserisce in una storia che va avanti. Se, nelle nostre comunità, attraverso la preghiera comune e la celebrazione dei sacramenti, attraverso la qualità della vita insieme e le varie forme di servizio, siamo in grado di facilitare un incontro col Dio vivente, questo tesoro potrà creare, quasi da sé, il desiderio di una continuità. Quando viviamo qualcosa di particolarmente bello e intenso, non abbiamo voglia che esso finisca, anzi, vogliamo che continui. Oggi, in un mondo che cambia sempre e dove mancano dei solidi punti di riferimento, non è la qualità della nostra fede che potrà aprire nuove forme di continuità, una storia d’amore che darà testimonianza all’unica Realtà che rimane fedele quando tutto crolla? Certo, la fede non dà una risposta magica alle sfide della vita, ma ci dà un fondamento sicuro, un trampolino per saltare avanti con fiducia. Non è questo che dobbiamo far capire ai nostri contemporanei stanchi di vivere nell’incertezza e nella paura del futuro?