NEL X ANNIVERSARIO DI EPISCOPATO

Diocesi di Trieste

X Anniversario di Episcopato

+Giampaolo Crepaldi

Arcivescovo-Vescovo

Cattedrale di San Giusto

20 marzo 2011

Carissimi fratelli e sorelle,

1.            Il Signore vi ha riunito qui questa sera per esprimere, unitamente a me, un corale ringraziamento per le cose buone e belle che ha compiuto attraverso l’espiscopato della mia povera persona, chiamata dieci anni fa ad essere il segno e il sacramento del Servo obbediente del Padre e del buon Pastore per l’edificazione della Chiesa e del popolo di Dio. Al ringraziamento si unisce la preghiera affinchè continui incessante il flusso di grazia spirituale che il Signore dona a quanti chiama a svolgere un ministero e un servizio all’interno della sua Chiesa. Ringraziamento e preghiera che giungono ad abbracciare due nostri seminaristi, Rudy Sabbadin e Andrea Paddeu, che avrò la gioia di ammettere al presbiterato. Ricordo la trepidazione del cuore di quel 19 marzo del 2001, quando, per le mani del Beato Giavanni Paolo II e nella Basilica di San Pietro, il Signore mi associò a sé con la pienezza del sacerdozio, destinandomi prima al servizio della Chiesa universale nei campi difficili della giustizia e della pace e poi, nel 2009, alla Chiesa particolare di Trieste dentro alla gioie e alle speranze, alle tristezze e alle angoscie quotidiane di questo popolo di Dio, popolo che amo e che servo affichè in Cristo trovi salute, pace e speranza di vita. Grazie, carissimi, di essere qui, in questa nostra magnifica Cattedrale, a confortarmi con la vostra presenza e la vostra amicizia cristiana e a ricuorarmi con la vostra disponibilità a camminare «sempre più speditamente incontro al Signore Gesù»,  invocando il «Figlio di Dio fatto carne» di aiutarci a tener vivo il desiderio di conoscerlo ed amarlo sempre più per testimoniarlo con una vita santa.

2.            Gesù Cristo e solo Lui deve essere il cuore del mio ministero espiscopale. Gesù Cristo e solo Lui deve essere il cuore della nostra Chiesa Diocesana.. È Lui la Via, la Verità e la Vita (cfrGv 14, 6). Paolo VI, all’inizio del secondo periodo del Concilio Vaticano II, si chiedeva con i Padri conciliari: «Donde parte il nostro cammino, o fratelli? Quale via intende percorrere […]? E quale meta, o fratelli, vorrà proporsi il nostro itinerario […]? Queste tre domande, semplicissime e capitali, hanno, ben lo sappiamo, una sola risposta, che qui, in quest’ora stessa, dobbiamo a noi stessi proclamare e al mondo che ci circonda annunciare: Cristo! Cristo, nostro principio, Cristo, nostra via e nostra guida! Cristo, nostra speranza e nostro termine»[1]. Giovanni Paolo II nella sua prima Enciclica Redemptor hominis (4 marzo 1979), dopo aver ricordato le vie indicate dal Concilio Vaticano II e da Paolo VI, si chiedeva all’inizio del suo ministero petrino: “In questa nuova tappa possiamo giustamente chiederci: come? In che modo occorre proseguire? Che cosa occorre fare […]? Proprio qui si impone una risposta fondamentale ed essenziale, e cioè l’unico orientamento dello spirito, l’unico indirizzo dell’intelletto, della volontà e del cuore è per noi questo: verso Cristo, Redentore dell’uomo, verso Cristo, Redentore del mondo. A Lui vogliamo guardare, perché solo in Lui, Figlio di Dio, c’è salvezza, rinnovando l’affermazione di Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna»” (n. 7). Benedetto XVI, nell’omelia all’inizio del Pontificato, commentando le parole di Giovanni Paolo II: «Non abbiate paura, aprite anzi spalancate le porte a Cristo», affermava: «Chi fa entrare Cristo, non perde nulla, nulla – assolutamente nulla – di ciò che rende la vita libera, bella e grande. No! Solo in quest’amicizia si spalancano le porte della vita. Solo in questa amicizia si dischiudono realmente le grandi potenzialità della condizione umana. Solo in questa amicizia noi sperimentiamo ciò che è bello e ciò che libera». Carissimi, non possiamo mettere tra parentesi Gesù Cristo, non possiamo impostare la nostra vita come se Egli non ci fosse! Sempre di nuovo dobbiamo convertirci a Lui, dare a Lui il primato nella nostra vita, lasciarci illuminare dalla sua Parola in tutte le situazioni e gli eventi della nostra storia personale e collettiva. Compito fondamentale della nostra Chiesa diocesana è  e sarà questo: far risplendere il volto di Cristo in questo tempo e alla gente di Trieste.

3.            Come Vescovo sono spesso angustiato da una constatazione: tanta gente non conosce più Gesù Cristo e il suo Vangelo o, immersa in un clima culturale scristianizzato, vive come se Dio non ci fosse. È necessaria una nuova evangelizzazione. Se vogliamo che il cristianesimo, – che a Trieste fu fecondato dal sangue dei martiri – abbia un futuro, siamo chiamati ad annunciare e testimoniare Gesù Cristo e Dio che Egli ci ha svelato con la sua vita e le sue parole. Il primo annuncio e il cammino dell’iniziazione cristiana devono entrare nel tessuto della pastorale ordinaria della nostra Chiesa come una scelta prioritaria. Abbiamo bisogno di cristiani maturi, che, consapevoli del dono della fede, riconoscenti per la gratuità di questo dono, cercano di conoscere e viverne i contenuti e si fanno propagatori della vita divina accolta e sperimentata. La nostra Chiesa deve avere un cuore che palpita sull’ampiezza del cuore di Dio. E’ questa la conversione che sempre bisogna rifare. Mi chiedo: la nostra mentalità, le nostre parole, l’azione pastorale, le nostre strutture, le nostre proposte esprimono la lunghezza e la larghezza dell’amore di Dio? Dio ama tutti, non esclude nessuno, “non fa preferenze di persone” (cfr At 10,34-35; Rm 2,11; Ef 6,9). Gesù è nato, è morto, ha versato il suo sangue ed è risorto per tutti. La nostra Chiesa – in particolare lì dove è a contatto con ogni persona, lì dove è chiamata ad essere “fontana del villaggio”: la parrocchia – deve accogliere, amare e servire tutti, non trascurando il suo specifico servizio, che è quello di annunciare e celebrare Gesù Cristo e far scoprire la misura alta della vita cristiana: la chiamata alla santità.

4.            Tutta la vita quotidiana della Chiesa deve avere una chiara connotazione missionaria. Nessuno può dire: “io non c’entro!”. Tutti, vescovo compreso, nella diversità di vocazioni e di compiti, siamo chiamati ad essere missionari, a proclamare, nella verità e nella carità, Gesù Cristo e il suo Vangelo.  Gesù Cristo ci conduce al Padre e ci fa scoprire, con la potenza del suo Spirito, che siamo figli. Siamo chiamati a riscoprire la grande dignità che ci costituisce: siamo figli di Dio, e a lottare perché ogni uomo possa godere di questa dignità. Siamo chiamati a vivere da figli, non da servi o da schiavi e dobbiamo testimoniare la libertà dei figli di Dio. Gesù Cristo, a cui siamo profondamente legati soprattutto attraverso i sacramenti, in particolare il Battesimo e l’Eucaristia, come i tralci alla vite, come le membra di un corpo al suo capo, fino ad essere una cosa sola con lui, ci porta “nel seno” della Trinità, ci fa partecipi, in assoluta gratuità, della vita divina, che è amore. La nostra Chiesa è chiamata ad essere carità, icona del Dio che ci ha svelato Gesù Cristo, la Trinità, l’Amore trinitario. In questa prospettiva di comunione trinitaria permettetemi di richiamare – a me prima di tutto e poi anche a voi – il compito che ci siamo prefissati di svolgere a partire dal 2012: il Sinodo Diocesano, la cui preparazione e il cui svolgimento deve e dovrà farci  acquisire uno stile di vita sinodale, in cui la compartecipazione, la corresponsabilità, la solidarietà vicendevole, la stima reciproca, il dialogo, il rispetto dei doni e dei compiti l’uno dell’altro senza confusioni e uniformità, devono diventare esperienza concreta. Lo stile sinodale dovrà diventare – è questo l’auspicio che si fa preghiera – la normalità del vivere della nostra Chiesa, dovrà innervare la vita delle nostre comunità parrocchiali, delle associazioni e dei movimenti, delle nostre famiglie, non solo nei momenti eccezionali, ma anche nella sua quotidianità.

5.            Come per gli Apostoli dopo l’esperienza della trasfigurazione (cfr Mc 9,2-8) – la liturgia ci invia in mezzo alla gente, a condividere con loro gioie e dolori, angosce e speranze. Qui si entra per amare Dio; da qui si esce per amare l’uomo. La carità, donataci nelle celebrazioni sacramentali, deve diventare storia concreta nel nostro esistere quotidiano. Il Vangelo della carità deve tradursi in una cultura della responsabilità e della solidarietà nelle molteplici dimensioni della vita. Dobbiamo essere presenti, con competenza e lungimiranza, nei luoghi dove si produce cultura: scuola, università, mass-media. La nostra Chiesa deve coltivare un rinnovato impegno per la città dell’uomo.  Un’attenzione particolare bisognerà continuare a dare ai poveri. «L’amore preferenziale per i poveri si rivela così una dimensione necessaria della nostra spiritualità». Grazie a Dio nella nostra Chiesa non mancano segni concreti di questa attenzione e altri ne dovremo fare, come quello che ho indicato per questo mio anniversario: completare un’ala della scuola della nostra missione diocesana a Iriamurai in Kenya che ho da poco visitato.

6.            Carissimi fratelli e sorelle, questi i voti riguardanti il futuro cammino della nostra Diocesi che, nella fausta ricorrenza del mio X anniversorio di episcopato, ho inteso riproporre a me e anche a voi nel segno di una rinnovata fedeltà al Signore Gesù.  Tutto affidiamo alla materna protezione delle Vergine Madre che saprà, ne siamo certissimi!, bussare alla porta del cielo per intercedere le grazie necessarie per la loro realizzazione e anche alla porta della nostra anima, sollecitandola all’obbedienza a Cristo, nostra salvezza e nostra pace. Amen!


[1]  PAOLO VI, Discorso in apertura del secondo periodo del Concilio, 29 settembre 1963, in Enchiridion Vaticanum, 1, Bologna 1966, nn. 143 – 144.