DIOCESI DI TRIESTE
Santa Messa Crismale
+ Giampaolo Crepaldi
Cattedrale di San Giusto, 13 aprile 2017
Eccellenza, dragi sobratje v Duhovništvu, carissimi Sacerdoti, Diaconi, Religiosi e Religiose, fratelli e sorelle, bratje in sestre!
1. La solenne Liturgia che stiamo celebrando, e che ci vede riuniti in questa nostra Cattedrale, è dominata dal simbolo dell’olio. Tra poco saranno benedetti l’olio per gli ammalati nel corpo e nello spirito e quello per i catecumeni e sarà consacrato il “crisma di salvezza per tutti i rinati dall’acqua e dallo Spirito” affinché siano partecipi della vita eterna e commensali al banchetto della gloria (cf. Liturgia della benedizione degli oli). In questo contesto liturgico in cui ricordiamo, con riconoscenza e gioia, il dies natalis del nostro sacerdozio, vi invito ad accompagnare con la preghiera di suffragio il confratello Mons. Simeone Musich che ci ha lasciato quest’anno, affidandolo all’abbraccio misericordioso del Padre celeste. Inoltre, vogliamo sentire particolarmente vicini i fratelli presbiteri che, a motivo della lontananza fisica richiesta dal ministero o perché anziani o ammalati, non sono tra noi. Un saluto pieno di gratitudine lo riserviamo ai diaconi con i quali condividiamo grazie e pene del ministero pastorale e ricordiamo nella nostra preghiera Flavio Gomiselli e Giovanni Leita che hanno raggiunto la patria celeste. Salutiamo con affetto tutti i presenti: le persone consacrate e i laici, ringraziandoli di cuore per essersi uniti a noi in questa festosa circostanza in cui rendiamo grazie al Signore per il dono del sacerdozio.
2. Cari fratelli nel sacerdozio, gli oli che andrò a benedire e a consacrare hanno una profonda caratterizzazione cristologica. La prima Lettura e il Vangelo che sono stati proclamati ci dicono, infatti, che la missione redentiva di Gesù ha la sua sorgente nell’unzione dello Spirito. Tutto questo poi è reso particolarmente manifesto dal nome stesso di Cristo; e non a caso lo Spirito Santo lo ha chiamato con questo nome: oleum effusum nomen tuum. Nell’antichità l’olio illuminava; l’olio nutriva; l’olio sanava. Ora, è Cristo stesso la luce che illumina il cammino della nostra esistenza, dall’inizio alla fine; è Cristo stesso il pane che dona la vita, dando forza alla nostra libertà indebolita, vigore alle nostre faticose esistenze e fioritura alla nostra affettività vissuta nell’amore vero e casto; è Cristo stesso la medicina delle nostre malattie spirituali, quando siamo scoraggiati, facendo risuonare nel nostro cuore la sua Parola: “Non temete. Io sarò con voi”. Quale tristezza del cuore non è guarita da questa parola? Quale notte oscura dello spirito non è consolata? Quale solitudine non è vinta da questa presenza? Come ci dice S. Bernardo: “Hai questo unguento, o anima mia, racchiuso in questo vocabolo che è Gesù, unguento salutare che non resterà senza effetto in nessuna delle tue malattie. Tienilo sempre nel cuore, abbilo sempre in mano, onde tutti i tuoi sentimenti e le tue azioni si ispirino a Gesù” (Cant. XV, 7).
3. Dragi sobratje v Duhovništvu, mediante l’imposizione delle mani siamo divenuti partecipi di questo Olio, siamo stati consacrati dallo Spirito Santo, siamo stati definitivamente aggregati alla missione di Cristo Signore. Agendo dunque in persona Christi, in Cristo, con Cristo e come Cristo anche noi siamo luce che illumina; pane che dona la vita; medicina che guarisce. Attraverso il nostro quotidiano ministero, siamo l’oggi di Cristo “che annuncia ai poveri un lieto messaggio; che proclama ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista”. Siamo l’oggi di Cristo “che predica un anno di grazia del Signore”, che si adempie mediante il tesoro del nostro ministero apostolico, nonostante le tante povertà e mancanze e infedeltà che caratterizzano le nostre vite. Domandiamoci: come vivere nella quotidianità del nostro ministero questa straordinaria responsabilità di essere oggi l’oggi di Gesù? Per rispondere a questa domanda non ho trovato di meglio che rifarmi al Concilio Vaticano II dove al cap. V della Costituzione dogmatica Lumen gentium viene esposto il tema dell’universale vocazione alla santità nella Chiesa. Queste le parole: “Perciò tutti nella Chiesa, sia che appartengano alla gerarchia, sia che siano retti da essa, sono chiamati alla santità, secondo le parole dell’Apostolo: «Sì, ciò che Dio vuole è la vostra santificazione»” (1Ts 4,3; cf. Ef 1,4) (n. 39). Questo appello alla santità è il più necessario e il più urgente adempimento per noi preti. Senza di esso, tutti gli altri adempimenti sono o impossibili o inutili. Esso è invece quello che rischia di essere il più trascurato, dal momento che a esigerlo e a reclamarlo sono solo Dio e la nostra coscienza. Non è infondata l’impressione che nella Chiesa attuale ci si impegni di più a fare i santi che a farsi santi. E per noi sacerdoti farsi santi non consiste tanto in un essere separati da questo o da quello, quanto in un essere uniti, in maniera totale e generosa, a Gesù Cristo, che nel libro dell’Apocalisse viene chiamato semplicemente il Santo (3,7) e che nel canto del Gloria viene proclamato Tu solus Sanctus, Tu solo sei il Santo.
4. Cari fratelli nel sacerdozio, chiudo questa omelia con una parola che vuole essere di incoraggiamento e di consolazione. In questi anni di episcopato a Trieste e anche nella pur breve esperienza di Visita pastorale che sto facendo, ho toccato con mano come sia difficile essere preti, essere cioè l’oggi di Cristo in una situazione che vede il progressivo estraniarsi da Dio da parte del mondo che ci circonda. Quanto doloroso sia il constatare che si tratta di processi che sembrano inarrestabili, vincenti e senza ritorno, processi che investono gli assetti culturali, giuridici, economici e sociali della quotidianità sempre più strutturati a prescindere da Dio e senza alcun riferimento al cristianesimo e al suo messaggio. Quanto lacerante sia il sentirci come dei residui di un passato ormai tramontato, tanto da ritenere che la stessa Chiesa sia come una sorta di azienda in liquidazione. A fronte di tutto questo, il rischio è quello della fuga in spiritualismi indebiti o in derive mondane o in ambiti di privacy ambigui e poco consoni al ministero sacerdotale. Quale parola può dire il Vescovo al suo presbiterio in una situazione tanto complicata e inedita? Non intendo esortarvi a intensificare il vostro zelo pastorale che conosco e apprezzo per le sue edificanti espressioni che giungono fino ad una generosità spesso eroica. L’unica cosa che posso e voglio dirvi è ripetere a me e a voi la parola di incoraggiamento e di consolazione che Gesù disse ai suoi apostoli: “Io ho vinto il mondo (Gv 16,33); questa è la vittoria che vince il mondo: la nostra fede” (1Gv 5,4). É la fede la nostra forza in un mondo ormai privato di Dio. La Lettera agli Ebrei dice di Mosè che “Egli stimava ricchezza maggiore dei tesori d’Egitto l’essere disprezzato per Cristo; aveva infatti lo sguardo fisso sulla ricompensa. Per fede, egli lasciò l’Egitto, senza temere l’ira del re; infatti rimase saldo, come se vedesse l’invisibile” (Eb 11,26-27). E fu questa fede che gli fece portare il peso immenso di generare il popolo di Dio. E fu questa fede che portò dodici poveri uomini ad entrare con coraggio nel mondo pagano: non lamentandosi del mondo, ma proponendo Cristo. È di questa fede che siamo chiamati a vivere, come se, a imitazione di Mosè, anche noi vedessimo l’invisibile. E, in questa circostanza, il pensiero va ai fratelli cristiani copti d’Egitto che nella Domenica delle Palme sono stati oggetto di due feroci attentati da parte di islamici sanguinari. A fronte di questi tragici e sventurati eventi, la loro esemplare risposta fu e continua ad essere quella di una fede incrollabile, così spiegata da Padre Antoine Alan, nostro fratello sacerdote copto di Alessandria: “Da sempre il nostro credo è provato e in Egitto siamo un capro espiatorio. Ma siamo chiamati a patire, non temiamo, abbiamo gioia e perdono nel cuore perché questo ci unisce al sacrificio di Cristo”. Che sia Maria con la sua materna protezione Colei che ci aiuta e ci sostiene in questo tempo che ci chiede di essere l’oggi di Cristo, con fede, nella speranza e nella carità.