Il card. Ennio Antonelli al Giubileo regionale dei sacerdoti

TRIESTE 13 OTTOBRE 2016 – GIUBILEO SACERDOTALE – MEDITAZIONE

“Misericordiosi come il Padre”

  1. Dio con noi soffre e per noi vince il male

Misericordiosi come il Padre è “il motto dell’Anno Santo” (Misericordiae Vultus 14) e anche – aggiunge Papa Francesco – il “criterio per capire chi sono i suoi veri figli” (MV 9). È ricalcato sulla parola di Gesù: “Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro” (Lc 6, 36). Corrisponde al detto equivalente posto da Matteo a conclusione delle antitesi nel discorso della montagna “Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il padre vostro celeste” (Mt 5, 48) e alla norma generale che nel libro del Levitico introduce una serie di precetti morali “Siate santi, perché io, il Signore vostro Dio, sono santo” (Lv 19, 1). Pertanto può essere assunto come sintesi e rappresentazione emblematica della perfezione e santità cristiana.

Nella parola ‘misericordia’ si congiungono due parole: miseria e cuore. Lo sottolinea più volte San Tommaso d’Aquino (S. Th. I, q. 21, a 3; II-II, q. 30. a 1; a 2) e, prima di lui, Sant’Agostino che scrive: “La parola misericordia deriva il suo nome dal dolore per il misero. In quel termine ci sono tutt’e due le parole, miseria e cuore. Quando il tuo cuore è colpito dalla miseria altrui, ecco, allora quella è misericordia” (Disc. 358 A, 1).

Riferita a Dio, la parola misericordia indica che egli ha verso l’uomo un amore appassionato, viscerale, in virtù del quale si coinvolge intimamente nella vita delle persone e nella storia del suo popolo, fino ad essere ferito dalla miseria altrui, come se fosse la propria. Il rapporto Dio-uomo, secondo la Sacra Scrittura, ha analogia con le relazioni familiari fortemente affettive: Dio è Padre, Madre e Sposo di Israele, suo popolo. “Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nell’amore e nella benevolenza, ti farò mia sposa nella fedeltà e tu conoscerai il Signore” (Os 2, 21-22). “… dall’Egitto ho chiamato mio figlio. Ma più lo amavo, più si allontanavano da me … Il mio popolo è duro a convertirsi: chiamato a guardare in alto, nessuno sa sollevare lo sguardo. Come potrei abbandonarti, Efraim, come consegnarti ad altri, Israele? … Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione. Non darò sfogo all’ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Efraim, perché sono Dio e non uomo; sono il santo in mezzo a te e non verrò da te nella mia ira” (Os 11, 1-2.7-9). “Non è un figlio carissimo per me Efraim, il mio bambino prediletto? Ogni volta che lo minaccio, me ne ricordo sempre, con affetto. Per questo il mio cuore si commuove per lui e sento per lui profonda tenerezza. Oracolo del Signore” (Ger 31, 20). “Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore … perché quanto il cielo è alto sulla terra, così la sua misericordia è potente su quelli che lo temono; … Come è tenero un padre verso i figli, così egli è tenero verso quelli che lo temono, perché egli sa bene di che siamo plasmati, ricorda che noi siamo polvere” (Sal 103, 8.11.13-14).

La Scrittura, già dal Primo Testamento, ci offre un’immagine di Dio come vicino e nello stesso tempo trascendente, visceralmente partecipe e nello stesso tempo altissimo. La teologia, fondandosi sulla rivelazione e sulla fede della Chiesa, precisa che Dio, infinitamente perfetto e immutabile nel suo essere, non può subire privazioni, non può patire; tuttavia, come per sovrabbondanza di perfezione, può compatire. Non subisce la sofferenza, ma la vuole liberamente. Non ha bisogno di amare noi né di essere amato da noi; ma per sua liberissima decisione vuole essere con noi e per noi; si lega visceralmente a noi con una relazione di amore, che è agàpe e èros, dono e desiderio: desiderio di comunicare e di donarsi, ma anche desiderio di essere accolto, di essere riamato, per il nostro stesso bene, desiderio di reciprocità e di comunione. “La sete di Dio è avere tutti gli uomini in sé” (Giuliana di Norwich, Una rivelazione dell’amore, 75). “Questa è la sete spirituale di Cristo … una brama di amore che vuole riunirci tutti insieme interamente in lui, per la nostra felicità infinita” (Id. 31). “(Gesù vuole essere conosciuto) come padre amorevole, che cerca in ogni maniera di confortare, aiutare e rendere felici i suoi figli e li segue e li cerca con amore instancabile, come se non potesse essere felice senza di loro” (Beata Madre Speranza di Gesù, 1927). Donandosi a noi con l’ardente desiderio di essere corrisposto, Dio si espone al rifiuto e alla sofferenza. Il peccato lo ferisce nel suo amore di alleanza; lo offende come l’adulterio della sposa offende lo sposo, come la ribellione dei figli offende il padre (cf. Os 2, 4-15; Is 1, 2-5; Ez 16, 15-41).

Il male dell’uomo è soprattutto il peccato; ma a questa miseria fondamentale si collegano, in qualche modo, anche la morte e le sofferenze morali, fisiche e sociali. Dio, nel suo amore, patisce come propria la miseria umana in tutte le sue dimensioni. “Nella storia umana, che è insieme storia di peccato e di morte, l’amore deve rivelarsi soprattutto come misericordia ed anche attuarsi come tale” (San Giovanni Paolo II, Dives in Misericordia, 8).

Dio, nella sua misericordia, non solo patisce con noi, ma ci salva; ci libera dal male e ci conduce alla pienezza della vita. Emblematica in tal senso è la parola rivolta a Mosè dal roveto ardente: “Il Signore disse: Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto ed ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele” (Es 3, 7-8). Emblematica è anche la parabola evangelica del buon samaritano, che si fa prossimo dell’uomo derubato e ferito dai briganti con commozione e con impegno operoso. “Un samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, lo vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in albergo e si prese cura di lui” (Lc 30, 33-34). Il Buon Samaritano, secondo i Padri della Chiesa, è figura di Gesù stesso e impersona la misericordia di Dio (cf. Ireneo, AH, III, 17, 3; Origene, In Lc 34; Ambrogio, In Lc 7, 69-84; Agostino, Disc. 171, 2). Nella rivelazione biblica Dio non dà spiegazioni teoriche al mistero e allo scandalo del male; vi entra dentro, lo soffre con noi, per poi liberarci e salvarci; condivide la sofferenza, trasformandola in amore fecondo di vita nuova.

  1. “Ci ha amati per primo” (1Gv 4,19)

Dio Padre ama per primo noi uomini; ci ama con amore paterno e materno, viscerale, appassionato. Per primo si commuove davanti alla nostra miseria: peccato, sofferenza, morte, pericolo dell’inferno. Soffre per noi peccatori, come scrive il grande teologo del III secolo, Origene, una passione d’amore. “Il Padre stesso, Dio dell’universo, paziente e ricco di misericordia e compassionevole, non soffre forse anch’egli in qualche modo? … Il Padre stesso non è impassibile … si impietosisce e soffre con noi. Soffre una passione d’amore” (Omelie su Ezechiele, 6, 6). Sofferenza non subita, ma assunta liberamente; diversa dalla nostra, ma reale; misteriosa, ma analogica.

Dio Padre dona a noi uomini, peccatori, infedeli e ribelli, quanto ha di più caro, il suo unico Figlio; lo manda in missione per la nostra salvezza. “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna” (Gv 3, 16). Lo dona fino alla morte in croce, ispirandogli e comunicandogli il suo amore misericordioso verso di noi. “Dio Padre – scrive San Tommaso d’Aquino – ha consegnato Cristo alla passione … in quanto gli ha ispirato la volontà di patire per noi, infondendo in lui la carità” (S. Th. II, q 47, a 3). “Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm 5, 8).

Il Figlio fa proprio e condivide perfettamente l’amore misericordioso del Padre, la sua “passione d’amore”. Obbedisce in tutto alla sua volontà. Con le parole, i gesti, la vita e la morte, rivela in modo trasparente “la presenza di Dio, che è Padre, amore e misericordia” (San Giovanni Paolo II, Dives in Misericordia 3). “Gesù Cristo è il volto della misericordia del Padre” (Papa Francesco, Misericordiae Vultus 1). Egli stesso ha detto: “Chi ha visto me, ha visto il Padre” (Gv 14, 9). E’ per giustificare la sua convivialità con i peccatori che Gesù racconta la parabola della pecora smarrita, quella della moneta perduta e quella, meravigliosa, del padre misericordioso (Lc 15, 2-32). Dio, padre materno, ama con amore forte e tenero, va incontro, gioisce per la conversione del peccatore, fa festa per il suo ritorno in famiglia. “Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò … Il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello … l’anello … i sandali … Prendete il vitello grasso … facciamo festa”.

Dio Padre vuole che il suo Figlio sia solidale in tutto con noi uomini, nella nostra condizione storica, oppressa dal peccato, dalla sofferenza e dalla morte (cf. San Giovanni Paolo II, Dives in Misericordia 3). Il Figlio, obbediente, si fa uomo senza privilegi, indifeso, povero, debole, fragile, mortale; si fa uguale a noi in tutto, eccetto il peccato, prendendo per altro su di sé il peso tremendo di tutti i nostri peccati. “È stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato” (Eb 4, 15; cf. Eb 5,8). Come ogni uomo, Egli ha una storia, un divenire reale e progressivo, dal concepimento nel grembo di Maria, alla nascita a Betlemme, alla vita nascosta a Nazaret, al ministero pubblico, alla morte in croce, al compimento nella risurrezione.

Nel suo ministero a servizio del Regno di Dio che viene, Gesù si pone accanto ai poveri e ai sofferenti con intima compassione, per liberarli dalla miseria fisica, esistenziale, relazionale, sociale, per vincere Satana e le potenze nemiche della vita. Espressione sintetica del suo agire è l’incontro con i due discepoli di Giovanni Battista: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro? In quello stesso momento Gesù guarì molti da malattie, da infermità, da spiriti cattivi e donò la vista a molti ciechi. Poi diede loro questa risposta: Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunziata la buona novella. E beato colui che non trova in me motivo di scandalo!” (Lc 7, 20-23).

Quanto ai peccatori, essi sono al centro della sua dedizione: va a ricevere il Battesimo al Giordano da Giovanni Battista insieme ai penitenti che si riconoscono peccatori; durante la vita pubblica non teme di perdere la sua reputazione frequentando i peccatori e mettendosi a mensa con loro; muore in croce tra due malfattori condannati per i loro delitti. Accettando l’ingiusta passione, condivide in pienezza i nostri mali fisici, sociali e spirituali, fino alla misteriosa e terribile esperienza della perdita del Padre. Si lascia disprezzare e disonorare, percuotere e flagellare, insultare e deridere, scomunicare e condannare alla morte in croce, la più atroce e infamante; soprattutto si sente abbandonato dal Padre e così si identifica fino in fondo con l’umanità peccatrice, rimanendo senza colpa, ma sperimentando esistenzialmente il peso della colpa, l’estrema miseria della lontananza da Dio. “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mc 15, 34): è il suo grido nel buio fitto in pieno giorno. “Egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; … è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità … noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti. Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca” (Is 53, 4-7). Si è caricato i nostri peccati, fino alla crocifissione da parte degli uomini, fino all’abbandono da parte del Padre, abbandono che è “sintesi indescrivibile dei dolori che patì per noi” (S. Angela da Foligno).

Il crocifisso abbandonato ha sofferto tutti i nostri mali come fossero i suoi. Si è fatto uno con noi, che in molti modi siamo peccatori e sofferenti. Perciò nell’esperienza della multiforme miseria umana possiamo incontrarlo, amarlo e con lui soffrire. Esorta Chiara Lubich, nella cui spiritualità Gesù Abbandonato è un cardine centrale: “Ama Gesù crocifisso in te, nelle infinite sfumature dei tuoi dolori, ma amalo soprattutto fuori di te, nei fratelli, in tutti i fratelli. Se fra essi puoi avere preferenze, amalo nei più peccatori, nei più miserabili, nei più cenciosi, nei più ripugnanti, nei più abbandonati”.

“Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio” (2Cor 5, 2; cf. Gal 3, 13). Gesù Cristo accoglie in sé ciò che è nostro, per comunicarci ciò che è suo. Si tratta di uno scambio; da non intendere però come sostituzione penale, ma come rappresentanza vicaria inclusiva. L’innocente non viene condannato e punito da Dio al posto dei peccatori; ma viene reso solidale fino a identificarsi nel suo amore con i peccatori, per farli partecipi della sua vita e cooperatori della sua opera.

La morte in croce è già l’attuazione suprema dell’amore misericordioso e nella tenebra dell’abbandono risplende già la sua gloria. “Mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani, ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio. Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1Cor 1, 22-25). L’amore misericordioso, incarnato nel Crocifisso Abbandonato, assumendo liberamente il peso del male di tutto il genere umano, lo vince. Sembra follia, invece è sapienza; sembra debolezza, invece è forza; sembra il fallimento completo, invece è il regno di Dio che viene nella sua potenza.

La gloriosa resurrezione non è distacco dalla croce, ma compimento di essa. Non per niente il Risorto, nelle apparizioni pasquali, si mostra ai discepoli con le ferite delle mani, dei piedi e del costato. L’amore maturato mediante la dolorosa passione rimane per sempre e costituisce la sua potenza salvifica. “Io quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12, 32). “Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono” (Eb 5, 8-9). Il Crocifisso Risorto, nella pienezza della sua sovranità messianica, comunica lo Spirito Santo, l’Amore dono, per il perdono dei peccati e la rigenerazione degli uomini a nuova vita. “La sera di quello stesso giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse: Pace a voi! Detto questo, mostrò loro le mani, e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: Pace a voi. Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi. Detto questo, soffiò e disse loro: Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati” (Gv 20, 19-23).

La comunicazione dello Spirito da parte del Signore crocifisso e risorto non è evento episodico, ma mistero sempre in atto.

A Bergamo si conserva un’immagine della Trinità, dipinta dal grande pittore veneto del 1500, Lorenzo Lotto, che è molto significativa a riguardo. In primo piano, in piedi nella gloria celeste, viene verso di noi il Cristo risorto con le braccia aperte e abbassate, le mani segnate dalle ferite, in atto di perenne autodonazione, con un sentimento di compassione impresso nel volto. L’energia emanata dal suo corpo, agita, come onde di colore cangiante, il drappo azzurro che gli cinge i fianchi e il manto rosso che gli scende dalle spalle. Dietro a lui fa da sfondo, al centro, la maestosa figura del Padre, che si intravede appena, come concentrazione della luce, che da lui irradia e dilaga in un oceano di gloria, da cui fanno capolino alcuni angeli bambini. Il Padre tiene le mani alzate nel gesto protettivo della benedizione e della missione; il Figlio le tiene abbassate nel gesto corrispondente dell’obbedienza, del dono di sé, dell’accoglienza. L’uno sempre continua a donare; l’altro sempre si lascia donare. La colomba abbagliante dello Spirito Santo li congiunge e intanto viene verso di noi. Sotto i piedi del Cristo si incurva l’arcobaleno della riconciliazione. Più in basso si distende un paesaggio terrestre, collinare, armonioso, rigoglioso di vegetazione, con varie scene di vita quotidiana.

Con il dono dello Spirito, comunicatoci dal Signore Gesù, siamo perdonati quanto ai peccati commessi e siamo preservati da quelli che potremmo commettere; non solo siamo tirati fuori dal fango, ma siamo anche trattenuti dal cadervi dentro. S. Agostino, rivolgendosi a Dio, riconosce: “Attribuisco alla tua grazia e alla tua misericordia il dileguarsi dei miei peccati come ghiaccio; attribuisco alla tua grazia anche tutto il male che non ho commesso …” (Confessioni II, 7). Poi aggiunge che, se dobbiamo rendere grazie alla divina misericordia per i peccati che ci sono perdonati, più ancora dobbiamo essere grati per i peccati da cui siamo preservati (cf. ivi).

La grazia, che ci è data, non sostituisce, ma suscita la nostra libera cooperazione: si riceve donando; si è perdonati perdonando (cf. Mt 6, 12; Lc 11, 4); si ottiene con la preghiera quello che si vive con l’impegno. “La fede si rende operosa per mezzo della carità” (Gal 5, 6); vive e prospera nella carità (cf. 1Cor 13, 2) e si esprime nelle opere buone (cf. Gc 2, 17).

Mediante la comunicazione dello Spirito, partecipiamo alla vita filiale e alla missione salvifica del Signore crocifisso e risorto. La nostra esistenza riceve senso, valore, perfezione, bellezza. Così Dio viene glorificato, perché “L’uomo vivente è la gloria di Dio” (S. Ireneo, Contro le eresie, IV, 20, 7). Egli desidera donare; desidera anche essere corrisposto e riamato; desidera inoltre la riparazione dei nostri peccati. Ma tutto vuole per il nostro bene, perché possiamo essere perfetti davanti a lui. La sua misericordia ci rende giusti; ci dona la giustizia. “L’opera della divina giustizia – scrive S. Tommaso d’Aquino – presuppone sempre l’opera della misericordia e si fonda su di essa … In ogni opera di Dio appare la misericordia, come prima radice di essa” (S. Th. I, q 21, a 4). Pertanto si può concludere che il sacrificio redentore di Cristo in definitiva rallegra la misericordia del Padre più che placare la sua ira e soddisfare la sua giustizia.

  1. La testimonianza dei mistici

Nel rapporto di Dio con l’uomo e con il mondo l’amore gratuito e misericordioso è fondamento e compimento, prima e ultima parola, tutto. Lo affermano molti santi mistici, che in virtù di uno speciale carisma fanno esperienza intensissima di Dio come amore e ne ricevono una conoscenza appassionata e intuitiva, al di sopra dei concetti e dei ragionamenti (scientia amoris). A titolo esemplificativo, ecco alcune significative testimonianze.

S. Angela da Foligno si è sentita dire dal Signore: “Vedi se in me c’è qualcos’altro che l’amore … In modo aperto mostrava la passione e la croce e ogni cosa predetta. E infine l’anima vedeva e capiva in modo certissimo che non era altro che amore” (Memoriale IV, 30).

S. Caterina da Siena scrive: “O misericordia, la quale esce dalla deità tua, Padre eterno, la quale governa con la tua potenza tutto quanto il mondo! Nella misericordia tua fummo creati; nella misericordia tuo fummo ricreati nel sangue del tuo Figliuolo … La misericordia tua vedo che ti costrinse a dare anche più all’uomo, cioè lasciandoti in cibo acciocché noi deboli avessimo conforto … O misericordia! Il cuore s’affoga a pensare a te, perché ovunque io mi volgo a pensare non trovo altro che misericordia” (Dialogo XXX).

Giuliana di Norwich, mistica non canonizzata, nel capitolo conclusivo del suo libro scrive: “Dal primo momento in cui ebbi queste rivelazioni (1373), spesso desiderai sapere cosa intendesse nostro Signore. Più di quindici anni dopo mi fu data in risposta una comprensione spirituale, e mi fu detto: – Bene, vorresti dunque sapere cosa ha inteso il tuo Signore e conoscere il senso di questa rivelazione? Sappilo bene: amore è ciò che lui ha inteso. Chi te lo rivela? L’amore. Che cosa ti rivela? Amore. Perché te lo rivela? Per amore. Rimani salda nell’amore, e lo conoscerai sempre più a fondo. Ma in lui non conoscerai mai cose diverse da questa, per l’eternità. Così imparai che nostro Signore significa amore. Ed io vidi con assoluta sicurezza in questa visione … che Dio prima ancora di crearci ci ha amati, di un amore che non è mai venuto meno, né mai svanirà. E in questo amore egli ha fatto tutte le sue opere…” (Una rivelazione dell’amore, 86).

Testimonianze analoghe troviamo in altri mistici (S. Maria Maddalena dei Pazzi, S. Margherita M. Alacoque, S. Teresa di Lisieux, S. Faustina Kowalska, Beata Speranza di Gesù, ecc.). I mistici ripetono con accenti impressionanti che l’amore di Dio, nonostante la S. Scrittura, il Magistero dei Vescovi e la riflessione dei teologi, la predicazione, la catechesi, la sincera devozione di moltissimi cristiani, non è conosciuto e non è amato. La loro stessa testimonianza è solo l’eco di un’esperienza ineffabile, che non si può dire con parole e concetti. “Qualunque cosa io dico, mi sembra di non dire niente o di dire male … Mi sembra di bestemmiare, qualsiasi cosa dico” (S. Angela da Foligno, Memoriale IX, 86; cf. II, 18; IX, 98). L’eco della loro intima esperienza risuona soprattutto nel desiderio ardente, quasi delirante, di amare e di far amare il Signore: “Amore non amato né conosciuto da nessuno … O Amore, dammi tanta voce che chiamando te, … io sia sentita dall’oriente sino all’occidente e da tutte le parti del mondo, etiam dall’inferno, acciocché da tutti tu sia conosciuto e amato…” (S. Maria Maddalena dei Pazzi). In epoca vicina a noi, S. Faustina Kowalska sente di essere stata scelta dal Signore come messaggera della divina misericordia: “Questo è il tuo incarico e il tuo compito per tutta la vita: far conoscere alle anime la grande misericordia che ho per loro ed esortarle alla fiducia…” (Diario, 516). “Avverto bene – Ella aggiunge – che la mia missione non finirà con la mia morte; anzi, con essa comincerà” (Diario, 127). La previsione, come possiamo costatare, si è realizzata.

I mistici e i santi, insieme con tutta la Chiesa, prolungano nei secoli quella lode alla divina misericordia, che Maria per prima intonò nel Magnificat, a nome dei poveri e degli umili. “L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio mio salvatore … di generazione in generazione la sua misericordia per quelli che lo temono” (Lc 1, 46-47.50).

Tra le afflizioni del secolo XX, “Grazia e Misericordia” è la parola di speranza che riassume il senso profondo delle apparizioni di Fatima; è la scritta, simile ad acqua viva, che la Madonna fa apparire per spiegare l’ultima visione, concessa nel 1929 a Lucia, unica veggente superstite, ormai novizia in monastero: visione della SS.ma Trinità con il Crocifisso che versa sangue su un’ostia e un calice, a indicare la perenne attualità del sacrificio della croce che viene ripresentato ogni giorno nell’Eucarestia, sorgente inesauribile di purificazione e di vita nuova. L’immagine, dipinta con la luce, si colloca nel solco di una lunga tradizione. Rappresenta la Trinità, come trono della grazia, accentuata qui come misericordia. Presso di essa, a sinistra, sta Maria, con il cuore immacolato coronato di spine, da cui sale una fiamma ardente di amore. Impersona e rappresenta tutta la Chiesa e tutti i cristiani, chiamati come lei a intercedere per i peccatori, a riparare i peccati, a cooperare con Cristo redentore alla salvezza del mondo, ottenendo una cascata di grazia e di misericordia che scende, evocata dalla scritta sulla destra, come acqua cristallina, per purificare, riconciliare, rigenerare.

  1. Le opere di misericordia

Accanto a Maria, che accoglie nel cuore immacolato l’amore misericordioso del Salvatore e coopera con lui nel mistero della redenzione, mi piace collocare una santa del nostro tempo, Madre Teresa di Calcutta, recentemente canonizzata.

E’ missionaria della carità e fondatrice delle Suore Missionarie della Carità (sotto il patrocinio del Cuore Immacolato della Beata Vergine Maria), dei Fratelli Missionari della Carità e dei Padri Missionari della Carità. Si pone tra l’Eucarestia e i poveri con un moto pendolare quotidiano di andata e ritorno. Attinge dall’Eucarestia la carità misericordiosa del Signore, la trasmette ai poveri, con sapienza, coraggio, gioia. Non vuole essere confusa con un’assistente sociale. Crede che Cristo è realmente presente sia nell’Eucarestia che nei poveri e intende intrattenersi con questa presenza tutto il giorno, 24 ore su 24, per contemplarla, adorarla, servirla, farla sperimentare anche agli altri. Prende tremendamente sul serio la parola dell’ultimo giudizio: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25, 40). Cristo è presente, misteriosamente, ma realmente, nelle persone che soffrono per diverse necessità e miserie, specialmente per il fatto di non sentirsi amati né dagli uomini né da Dio.

Un giorno le chiede udienza un uomo che dice di essere in ricerca di Dio e spera di trovarlo in un colloquio con lei. Madre Teresa non lo riceve e gli manda a dire attraverso una suora che vada ad assistere per una settimana i poveri moribondi. Egli va e per una settimana fa l’esperienza dell’estrema miseria e desolazione. Finalmente Madre Teresa lo riceve e gli dice: “Dio era là con i moribondi e tu lo hai incontrato”.

Insieme alla presenza reale nell’Eucarestia e nei poveri, Madre Teresa sottolinea fortemente la presenza reale di Cristo in coloro che vivono e trasmettono il suo amore misericordioso. Il Signore l’ha chiamata alla missione con questo invito: “Vieni, vieni, portami nei tuguri dei poveri. Vieni, sii la mia luce! Non posso andare da solo: essi non mi conoscono e quindi non mi vogliono … Vieni, sii vittima per loro! Nella tua immolazione, nel tuo amore per me, loro mi vedranno, mi conosceranno, mi vorranno …”. L’autentico amore verso il prossimo, concreto, misericordioso e gioioso, è frutto dello Spirito Santo, opera della grazia di Cristo, accolta nella libera cooperazione umana; perciò attraverso di esso la presenza di Dio misericordioso viene e si manifesta agli uomini, immersi nelle tenebre della miseria materiale e spirituale.

Papa Francesco ci ha chiamati a riscoprire e mettere in pratica durante il Giubileo, che stiamo celebrando, le opere di misericordia corporale e spirituale. L’amore senza le opere concrete è illusorio. D’altra parte le opere senza l’amore non hanno valore e fecondità soprannaturale. La condivisione con il prossimo deve essere effettiva e affettiva. “Tu dai il pane a chi ha fame – dice S. Agostino – ; daglielo con la partecipazione del cuore, non con noncuranza, per non trattare come un cane l’uomo a te simile … se porgi un pane, cerca di essere partecipe della pena di chi ha fame; se dai da bere, partecipa la pena di chi ha sete; se dai un vestito, condividi la pena di chi non ha vestiti; se dai ospitalità, condividi la pena di chi è pellegrino; se visiti un infermo, quella di chi ha una malattia; se vai a un funerale, ti dispiaccia del morto; e se metti pace tra i litiganti, pensa all’affanno di chi ha una contesa. Se amiamo Dio e il prossimo, non possiamo fare queste cose senza una pena nel cuore” (S. Agostino, Discorso 358/A, 1).

San Camillo de Lellis raccomanda di curare i malati con premura e delicatezza, mettendo l’anima nelle mani. Nelle Regole scrive: “Desideriamo, con la grazia di Dio, servire tutti gli infermi con quell’affetto che suole avere un’amorevole madre al suo unico figlio infermo” (Regole infermieristiche XVII). Egli stesso ne dà l’esempio in modo impressionante: si intrattiene a lungo e a più riprese con ogni malato, “come se fosse attratto da una calamita”.

Quanto alle opere di misericordia spirituale, possiamo citare come modello, vicino a noi in senso cronologico e geografico, San Leopoldo Mandic. A Padova, nella sua stanzetta-confessionale, per circa 30 anni dedica 10-15 ore al giorno ad accogliere i numerosi penitenti che accorrono a lui: ascolta, consiglia, perdona, consola. Prende su di sé il peso dei peccati e delle sofferenze: “Farò penitenza io”; “Signore, getta su di me la pena di questa persona. Mi offro io per lei”. Viene esaudito, tanto che spesso una tremenda angoscia lo afferra e lo costringe a piangere a lungo durante la notte. Qualche testimone attesta: “Sembrava come Gesù in croce, quando su di lui pesava tutto il peccato del mondo e si sentiva abbandonato da Dio”.

  1. Misericordia ed evangelizzazione secondo Papa Francesco

Papa Francesco, nel suo ministero di Successore di Pietro, mi pare che fondamentalmente si muova nella prospettiva urgente della Nuova Evangelizzazione. L’Esortazione apostolica Evangelii Gaudium può essere considerata il suo documento programmatico. Il Papa auspica una trasformazione di tutta la Chiesa in senso missionario con una presa di coscienza da parte dei cristiani di essere chiamati tutti a comportarsi nella vita quotidiana concreta come discepoli di Cristo e come evangelizzatori. Egli desidera una più ampia e responsabile partecipazione dei fedeli alle comunità ecclesiali e una maggiore vicinanza delle comunità ecclesiali al vissuto delle persone, delle famiglie, della gente. Ritiene che in questo senso potrebbe essere preziosa l’edificazione della parrocchia come comunità di comunità (cf. EG 28-29). Annuncia senza esitazione che “il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa nel terzo millennio” (Discorso 17.10.2015 nel 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo dei Vescovi). La sinodalità include come un suo elemento la collegialità episcopale, ma la trascende, perché è il camminare insieme del popolo di Dio nella storia, con la varietà delle vocazioni e dei carismi, incontro al Signore che viene. Intesa in questo senso, la parola sinodo è un altro nome della Chiesa. I battezzati, in quanto figli di Dio, hanno pari dignità, sono fratelli tra loro, tutti chiamati alla santità e alla missione. Ricevono però doni e carismi diversi per svolgere compiti e servizi diversi. In questa varietà devono ascoltarsi, servirsi e valorizzarsi reciprocamente. Il Papa e i Vescovi devono esercitare la loro autorità come un servizio necessario a garanzia dell’apostolicità e dell’unità; ma con uno stile di fraternità e umiltà, edificando la Chiesa come una piramide capovolta, con il vertice al di sotto della base (cf. il Papa Servo dei Servi di Dio e i Pastori come servitori della Chiesa).

Anche il primato della misericordia viene considerato da Papa Francesco nel contesto della missione evangelizzatrice. “Nel nostro tempo, in cui la Chiesa è impegnata nella nuova evangelizzazione, il tema della misericordia esige di essere riproposto con nuovo entusiasmo e con una rinnovata azione pastorale. È determinante per la Chiesa e per la credibilità del suo annuncio che essa viva e testimoni in prima persona la misericordia. Il suo linguaggio e i suoi gesti devono trasmettere misericordia per penetrare nel cuore delle persone e provocarle a ritrovare la strada per ritornare al Padre. La prima verità della Chiesa è l’amore di Cristo. Di questo amore, che giunge fino al perdono e al dono di sé, la Chiesa si fa serva e mediatrice presso gli uomini. Pertanto, dove la Chiesa è presente, là deve essere evidente la misericordia del Padre. Nelle nostre parrocchie, nelle comunità, nelle associazioni e nei movimenti, insomma, dovunque vi sono cristiani, chiunque deve poter trovare un’oasi di misericordia” (Misericordiae Vultus 12).

“Ciò di cui abbiamo bisogno, specialmente in questi tempi sono testimoni credibili che con la vita e anche con la parola rendano visibile il Vangelo, risveglino l’attenzione per Gesù Cristo, per la bellezza di Dio, che rendano visibile … la misericordia di Dio, la sua tenerezza” (Discorso 14 ottobre 2013 alla Plenaria del Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione).

“Io vedo con chiarezza che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia … si devono curare le ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto” (cf. Intervista, Osservatore Romano 21.9.2013).

Ovviamente non si tratta di attivismo sociale. Si tratta di invocare, accogliere, vivere, trasmettere, manifestare la misericordia di Dio e di Cristo. L’azione deve essere preceduta, ispirata, sostenuta dalla preghiera. È nella nostra preghiera che innanzitutto dobbiamo accogliere e tenere i peccatori, i sofferenti, i malati, i poveri, gli oppressi, i prigionieri, i cristiani perseguitati. La preghiera non è tutto; ma tutto ha inizio e fondamento nella preghiera.

Quanto alle ferite da curare, l’attenzione misericordiosa della Chiesa si rivolge non solo alle povertà materiali e sociali, ma anche e soprattutto alle situazioni di peccato e di sofferenza esistenziale e spirituale. Tutti devono sentirsi accolti, amati, incoraggiati a fare il bene, perché Dio nella sua misericordia ama tutti e sempre offre loro nuove possibilità. In questo contesto si colloca l’esortazione apostolica Amoris Laetitia e specialmente la pastorale delle coppie irregolari, disegnata nel Cap. 8, sulla quale mi pare opportuno offrire alcune linee interpretative.

  1. Misericordia per le famiglie ferite: Amoris laetitia

Amoris Laetitia conferma la dottrina tradizionale: il matrimonio cristiano è indissolubile (cf. AL 86; 123-124; 291-292); l’indissolubilità, più che un giogo, è un dono da apprezzare e da coltivare (cf. AL 62); il divorzio è un male e preoccupa per la sua larga diffusione (cf. AL 246; 291); la nuova unione dei divorziati e ogni convivenza sessuale diversa dal matrimonio è un grave disordine morale (cf. AL 297-298; 301; 305). (Cf. anche, a proposito della ‘teoria del gender’, la severa denuncia fatta dal Papa a Tbilisi in Georgia il 1° ottobre 2016 “della guerra mondiale contro il matrimonio” e “della colonizzazione ideologica”).

Purtroppo Amoris Laetitia tace sulle norme generali negative, che vietano di fare il male. Esse obbligano in ogni situazione, senza alcuna eccezione che si possa considerare oggettivamente lecita, come insegna molto autorevolmente, nel solco della tradizione cattolica, l’enciclica Veritatis Splendor di San Giovanni Paolo II: “I precetti negativi della legge naturale sono universalmente validi: essi obbligano tutti e ciascuno, sempre e in ogni circostanza … vietano una determinata azione sempre e per sempre, senza eccezioni” (VS 52; cf. 78-82 e anche CCC 1750-1761; 2072). Non è mai lecito trasgredirli, neppure per una buona intenzione e una lodevole finalità (Cf. VS 80 e anche CCC 1753). Il motivo è che gli atti, da essi proibiti, sono disordinati intrinsecamente, in se stessi, per il loro stesso contenuto. Tali, ad esempio, sono: la bestemmia, l’apostasia, l’uccisione diretta di una persona innocente, l’aborto, la tortura, l’appropriazione indebita dei beni altrui, la calunnia, la menzogna, l’adulterio, i disordini sessuali, tra i quali ovviamente anche le unioni dei divorziati risposati e di altre coppie conviventi. Il silenzio di Amoris Laetitia, sul tema delle norme negative può agevolare l’errata interpretazione, secondo cui in certi casi queste unioni sarebbero oggettivamente lecite, come un bene analogo al matrimonio, anche se incompleto.

Amoris Laetitia esclude la gradualità della legge e la doppia morale (cf. AL 295; 300); concorda perciò in questo con Veritatis Splendor che ammonisce: “Sarebbe un errore gravissimo concludere che la norma insegnata dalla Chiesa è in se stessa solo un ideale che deve poi essere adattato, proporzionato, graduato alle, si dice, concrete possibilità dell’uomo” (VS 103; cf. 104); riconosce che, con l’aiuto della grazia, l’osservanza dei comandamenti è realmente possibile (cf. AL 295; 297; 303), rimanendo sostanzialmente in accordo con la dottrina del Concilio di Trento (cf. DH 1568) e di San Giovanni Paolo II (cf. VS 65-70; 102-103). A volte però si riscontra in essa qualche ambiguità di linguaggio, giustificabile con il tono discorsivo e l’esigenza comunicativa: ad esempio, si attribuisce alle seconde unioni dei divorziati e ad altre convivenze sessuali la qualifica di bene imperfetto e momentaneamente possibile (cf. AL 76; 78; 296; 303; 308), mentre con un linguaggio teologico più preciso dovrebbero essere considerate un male morale, al quale sono congiunti alcuni beni (cf. AL 308), “elementi costruttivi” (cf. AL 292), valori corrispondenti a quelli del matrimonio (cf. AL 292), come l’amicizia, l’aiuto reciproco, la dedizione ai figli.

Alla luce di Amoris Laetitia e soprattutto dell’insegnamento di San Giovanni Paolo II in Familiaris Consortio e Veritatis Splendor, le nuove unioni dei divorziati e le altre convivenze sessuali non devono mai essere approvate come oggettivamente lecite (cf. AL 291; 297; 303; 305). Però le persone, che si trovano in tali situazioni disordinate, devono essere aiutate a integrarsi nella concreta vita ecclesiale, progressivamente e in modi diversi, proponendo a ognuna il bene possibile a lei (cf. AL 308), cercando di evitare lo scandalo (cf. AL 297; 299), incoraggiando i passi orientati nella giusta direzione (cf. AL 305), come la preghiera personale, familiare e comunitaria, l’ascolto della Parola, la frequenza assidua alla Santa Messa, il responsabile impegno educativo verso i figli, le opere di misericordia verso il prossimo, il volontariato, i servizi ecclesiali (anche negli organismi di partecipazione), in modo da incontrare il Signore e la sua misericordia “per altre vie”, diverse dai sacramenti (cf. San Giovanni Paolo II, Reconciliatio et Poenitentia 34).

Certamente Amoris Laetitia non dimentica la legge morale oggettiva; tuttavia pone in primo piano ed esplicita ampiamente la prospettiva della coscienza e della responsabilità personale, raccomandando tra l’altro di tenerla in maggiore considerazione nella prassi pastorale (cf. AL 303). Il documento precisa correttamente che l’osservanza delle norme, se attuata senza amore, potrebbe essere insufficiente davanti a Dio (cf. AL 304) e viceversa la vita in grazia di Dio potrebbe realizzarsi anche in una situazione oggettiva di disordine morale, quando i condizionamenti attenuano o annullano la colpevolezza soggettiva (cf. AL 305). Altro dunque è il grave disordine oggettivo e altro è il peccato mortale personale, che comporta la piena avvertenza e il deliberato consenso.

Amoris Laetitia conferma la cosiddetta legge della gradualità (cf. AL 295), già formulata da San Giovanni Paolo II: “(l’uomo) conosce, ama e realizza il bene morale secondo tappe di crescita” (Familiaris Consortio 34). Tale legge implica che a volte la coscienza può essere erronea senza cessare di essere retta; può agire in contrasto con la norma morale senza essere colpevole o senza esserlo pienamente. La persona potrebbe ignorare la norma generale (ad esempio, il rapporto sessuale è sempre illecito fuori del matrimonio); potrebbe non percepire il valore contenuto nella norma, in modo da poter scegliere il bene ed evitare il male liberamente per convinzione interiore (ad esempio, potrebbe non comprendere che il rapporto sessuale è proprio del matrimonio e solo in esso ha valore e dignità umana, come espressione del dono reciproco totale e del comune dono ai figli); potrebbe infine ritenere erroneamente che l’osservanza della norma, nella sua particolare situazione, sia impossibile, diventando anzi occasione di altre colpe (ad esempio, la continenza sessuale, se il convivente non fosse d’accordo, potrebbe diventare occasione di rapporti sessuali con altre persone e provocare l’interruzione della coabitazione con grave danno per la cura e l’educazione dei figli).

Amoris Laetitia chiede che nella predicazione e nella catechesi i sacerdoti e gli altri operatori pastorali propongano la concezione cristiana del matrimonio nella sua integralità (cf. AL 303; 307). D’altra parte raccomanda di non aggravare ulteriormente la situazione delle persone già oppresse dalla sofferenza e dalla miseria, colpevolizzando la loro coscienza (cf. Al 49). A riguardo si può ricordare che a volte bisogna tollerare un male minore per evitare un male maggiore e che il Sacerdote, nella confessione e nell’accompagnamento personalizzato, può lecitamente, con il suo silenzio, lasciare il penitente nell’ignoranza, qualora lo ritenga, almeno per il momento, incapace di emendarsi di qualche grave disordine oggettivo (ad esempio, la contraccezione o la convivenza sessuale irregolare). Egli con il suo silenzio non approva il male; non coopera con esso; evita solo di aggravarlo, preoccupandosi che il peccato materiale non si trasformi in peccato formale. Il dialogo interpersonale non ha le stesse esigenze di completezza che ha l’insegnamento pubblico.

Il Sacerdote però non deve continuare a tacere neppure davanti al singolo cristiano, se questi, mentre vive in una situazione pubblicamente conosciuta di grave disordine morale, intende accedere alla comunione eucaristica, sacramento dell’unità ecclesiale, spirituale e visibile, che esige sintonia nella professione di fede e coerenza oggettiva nella forma di vita. “Il giudizio sullo stato di grazia, ovviamente, spetta soltanto all’interessato, trattandosi di una valutazione di coscienza. Nei casi però di un comportamento esterno gravemente, manifestamente e stabilmente contrario alla norma morale, la Chiesa, nella sua cura pastorale per il buon ordine comunitario e per il rispetto del sacramento, non può non sentirsi chiamata in causa” (San Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucaristia, 37). La contraddizione oggettiva e palese crea scandalo e coinvolge la responsabilità della comunità ecclesiale e, specialmente, dei pastori. Il sacerdote, se è a conoscenza della situazione irregolare, deve ammonire la persona interessata, con rispetto e amore, perché non tenga conto solo del suo giudizio di coscienza; deve rinviare l’ammissione di essa alla comunione eucaristica fino a quando non avrà fatto discernimento “col sacerdote in foro interno” (AL 298; cf. 300) e non avrà compiuto, sotto la guida di lui un cammino ecclesiale appropriato (cf. AL 294; 300; 305; 308).

Dato che le norme generali negative obbligano sempre, senza alcuna eccezione, il cristiano in situazione irregolare è tenuto davanti a Dio a fare il possibile per uscire dal disordine oggettivo e armonizzare il suo comportamento con la norma. Può darsi che la sua coscienza, erronea in buona fede, non se ne renda conto; ma il sacerdote, che lo accompagna, deve guidarlo con carità e prudenza a discernere e a compiere la volontà di Dio nei suoi confronti, fino ad assumere una forma di vita coerente con il vangelo. I passi, che in questo cammino potrebbero trovare spazio, sono i seguenti: a) verificare la validità del precedente matrimonio e ottenere eventualmente la sentenza di nullità, avvalendosi delle facilitazioni procedurali introdotte da Papa Francesco in data 15 agosto 2015 nei due Motu Proprio Mitis Judex Dominus Jesus e Mitis et Misericords Jesus; b) celebrare il matrimonio religioso o sanare in radice il matrimonio civile; c) interrompere la coabitazione, se non ci sono impedimenti; d) praticare la continenza sessuale, se altre soluzioni non sono possibili (cf. San Giovanni Paolo II, FS 84); e) in caso di errore temporaneamente invincibile e perciò di rifiuto circa la continenza sessuale, valutare la possibile rettitudine della coscienza alla luce della personalità e del vissuto complessivo (preghiera, amore del prossimo, partecipazione alla vita della Chiesa e rispetto per la sua dottrina, umiltà e obbedienza davanti a Dio); esigere che la persona si impegni almeno a pregare e a crescere spiritualmente, allo scopo di conoscere correttamente e compiere fedelmente la volontà di Dio nei propri confronti, come si manifesterà; f) infine si può concedere l’assoluzione sacramentale e la comunione eucaristica, avendo cura di mantenere la riservatezza e di evitare lo scandalo (cf. AL 299); g) il sacerdote ha bisogno di carità e sapienza, per testimoniare la misericordia di Dio che a tutti e sempre offre il perdono e nello stesso tempo per discernere se il perdono viene realmente accolto dal penitente con la necessaria conversione (Non sembra però che il cristiano, finché rimane in una situazione oggettivamente disordinata, possa rivendicare il diritto ai sacramenti, appellandosi alle sue disposizioni interiori e al suo giudizio di coscienza. Nel capitolo VIII Amoris Laetitia non sembra voler dare comandi, ma solo consigli).

  1. Preghiera per essere misericordiosi

A conclusione di questa lunga riflessione, teologica, spirituale e pastorale, facciamo nostra la bellissima preghiera di Santa Faustina Kowalska, per diventare come lei testimoni della Divina Misericordia.

“Aiutami, o Signore, a far sì che i miei occhi siano misericordiosi, in modo che io non nutra mai sospetti e non giudichi sulla base di apparenze esteriori, ma sappia scorgere ciò che c’è di bello nell’anima del mio prossimo e gli sia di aiuto.

Aiutami a far sì che il mio udito sia misericordioso, che mi chini sulle necessità del mio prossimo, che le mie orecchie non siano indifferenti ai dolori e ai gemiti del mio prossimo.

Aiutami, o Signore, a far sì che la mia lingua sia misericordiosa e non parli mai sfavorevolmente del prossimo, ma abbia per ognuno una parola di conforto e di perdono.

Aiutami, o Signore, a far sì che le mie mani siano misericordiose e piene di buone azioni, in modo che io sappia fare unicamente del bene al prossimo e prenda su di me i lavori più pesanti e più penosi.

Aiutami a far sì che i miei piedi siano misericordiosi, in modo che io accorra sempre in aiuto del prossimo, vincendo la mia indolenza e la mia stanchezza. Il mio vero riposo sta nella disponibilità verso il prossimo.

Aiutami, o Signore, a far sì che il mio cuore sia misericordioso, in modo che partecipi a tutte le sofferenze del prossimo … Abiti in me la Tua Misericordia, o mio Signore” (Diario, LEV, p. 88).

 

CARDINALE ENNIO ANTONELLI
Presidente emerito del Pontificio Consiglio per la Famiglia