11 marzo | Ritiro spirituale del clero

RITIRO SPIRITUALE DEL CLERO

La fraternità sacerdotale

11 marzo 2021

Carissimi,

con il perdurare e l’acuirsi della situazione pandemica da Covid-19 anche per il mese di marzo dovremo tenere il nostro Ritiro Spirituale non in presenza come programmato e da tutti desiderato. Faremo comunque il possibile per mantenere l’impegno giovedì 11 marzo, dedicando un tempo congruo per la meditazione e per l’adorazione eucaristica singolarmente o comunitariamente qualora si viva in comunità. Questo il tema che vi propongo: La fraternità sacerdotale, trattato dalla Lettera Essere preti a Trieste nei numeri dal 13 al 17. Oltre al brano della Lettera, vi suggerisco di far tesoro di un altro testo che contiene alcuni spunti utili per il momento della meditazione. Colgo l’occasione per invitarvi a pregare per i confratelli attualmente ammalati.

Affidandovi tutti alla materna protezione della Madonna della Salute, vi benedico di vero cuore.

✠ Giampaolo Crepaldi

Trieste, 8 marzo 2021

 

Dalla Lettera Essere preti a Trieste

 

La fraternità sacerdotale

13. Carissimi presbiteri, la vita d’un prete in cura d’anime è vita spesa per la comunità (parrocchiale o non). Quando due o più presbiteri sono posti a cura d’una comunità, la prima testimonianza che rendono ai fedeli è la comunione che manifestano tra loro. Due o più presbiteri che vivono e lavorano assieme come buoni fratelli danno forte e convincente testimonianza subito notata dai fedeli che vedono la comunione presbiterale con piacere ed edificazione. La strada per una felice comunione presbiterale è l’umiltà, il sapersi limitati e fragili, il riconoscere d’aver bisogno di aiuto e perdono. L’umiltà conduce il presbitero a legarsi sempre più a Cristo e ad avere misericordia verso i fedeli affidatigli e verso i confratelli. È facile tra confratelli sparlare e cadere in giudizi temerari, maldicenze e cattiverie. Non diamo ascolto e credito alle chiacchiere, ai pettegolezzi. Cerchiamo piuttosto di avvicinare il confratello che vive qualche difficoltà per essergli d’aiuto. Parliamo con lui senza moralismi, facciamogli sentire il nostro amore fraterno e la nostra vicinanza. Preghiamo per lui e con lui. È così che si cementa l’unità presbiterale e si aiuta il confratello. Quando la gravità della situazione lo richieda non si manchi di parlare al Vescovo dei confratelli che vivono particolari situazioni di difficoltà e disagio.

14. La carità si esprime in una particolare sensibilità verso i confratelli malati, anziani o in crisi. Ogni presbitero sia verso di loro amorevole e premuroso come Gesù. Quando un confratello lascia questo mondo, pregare per la sua anima e partecipare al funerale è dovere di carità presbiterale. Il ministero ordinato accomuna tutti i presbiteri tuttavia molte e diverse sono le condizioni esistenziali date dall’età, dalla salute, dalla psicologia, dall’incarico ricevuto, etc. In una Diocesi compongono il presbiterio preti giovani e anziani, sani e malati, entusiasti e in crisi, con impegni in parrocchia o in Curia, etc. Diverse, anche molto diverse, sono quindi le concrete condizioni di vita dei diversi presbiteri della Diocesi. A tutti è chiesto di vivere la carità pastorale in conformazione a Gesù Buon Pastore ma a ciascuno è chiesto di vivere ciò secondo le concrete condizioni personali di età, salute, ufficio, etc.

15. Ai presbiteri giovani dico di essere umili chiedendo spesso il consiglio a presbiteri di esperienza, chiedo di non essere maldicenti o rassegnati, ma sinceri e spontanei. Cari preti giovani, non perdete il vostro entusiasmo giovanile se troverete qualche confratello deluso che vi scoraggerà. Non rinunciate a comunicare agli altri presbiteri le vostre prime soddisfazioni pastorali e le prime sconfitte e delusioni.

16. Ai presbiteri anziani per età dico di non scordare mai di rendere continuamente grazie a Dio per l’essere Sacerdoti. Ciò non permetterà che sorga in voi l’amarezza. Non di nostalgia si deve vivere, ma di zelo per il bene da fare oggi. La Diocesi e tutto il presbiterio hanno bisogno delle vostre preghiere, della vostra esperienza e della vostra serenità. Cari preti anziani d’età, non tiratevi indietro se avete ancora forze per servire il Popolo santo di Dio, non sentitevi mai di peso solo perché non riuscite più ad essere attivi come un tempo. Ogni stagione dà i suoi frutti e l’anzianità ha frutti non meno preziosi della gioventù.

17. Vi sono poi presbiteri, non dobbiamo nascondercelo, che vivono momenti di crisi e di disagio anche gravi. A questi fratelli sofferenti, delusi e amareggiati dico di non scandalizzarsi per la propria fragilità. Figli carissimi, non abbiate paura e non chiudetevi in voi stessi pensando di farcela da soli. Oltre alla preghiera è necessario farsi accompagnare dal proprio padre spirituale. Ricorrete con frequenza e fiducia al consiglio d’un Sacerdote anziano ed esperto, lasciatevi aiutare dagli amici veri e seri. Non abbiate riserve a ricorrere anche all’aiuto di qualche esperto psicologo di provata serietà e fede. Non vivete la crisi da soli, non nascondetevi dai confratelli e dal Vescovo. Il Vescovo è chiamato a vivere la sua paternità nei riguardi dei presbiteri specialmente quando fragili e in difficoltà.

 

La fraternità presbiterale

 

  1. Una fraternità da riconciliare: il libro della Genesi

Quando penso alla fraternità mi viene subito in mente il libro della Genesi: tutto il libro, a partire dal capitolo 4, è una storia di fratelli (Abele e Caino; Isacco e Ismaele; Giacobbe ed Esaù) che vivono grandi conflittualità, con toni molto violenti, difficilmente sanabili. Se, come afferma qualcuno, nel libro della Genesi, è scritto il “DNA” dell’uomo che vive sulla terra dopo il peccato, potremmo affermare che la fraternità sia un ideale destinato a fallire, che gli uomini si dovrebbero rassegnare a vivere in conflitto tra loro. Ma poi arriva la storia di Giuseppe, figlio di Giacobbe e Rachele (Genesi dal cap. 37). Sappiamo che questa storia, nella grande architettura del racconto biblico, serve per motivare la presenza degli Ebrei in Egitto; ma leggendola ad un altro livello questa vicenda consente di riscattare la fraternità, proprio grazie al contributo personale di Giuseppe: lui il fratello venduto come schiavo; lui che ha subìto ogni ingiustizia; lui che finalmente ha visto riconosciuti i suoi meriti e la sua innocenza; …non si abbandona alla vendetta contro i fratelli, nonostante potesse farlo impunemente, ma sceglie la via della riconciliazione e del perdono (Cfr. Gen 50,15-21). I fondamenti della storia dell’umanità e del popolo d’Israele narrati in Genesi ci parlano della fraternità come di una realtà molto delicata, qualcosa che chiede di essere custodita; per difenderla qualcuno deve fare un passo gratuito nel segno della riconciliazione e del perdono. Dopo migliaia di anni le cose non sono affatto cambiate. È importante che non ci abbandoniamo alla retorica del momento e abbiamo la ferma consapevolezza che la fraternità, pur essendo una realtà umana diffusa e oggettivamente positiva e significativa, è altrettanto fragile e sempre bisognosa di riscatto.

  1. La fraternità evangelica

Fin dai suoi primi passi nel ministero pubblico, Gesù ha voluto costituire i suoi discepoli in una fraternità di persone che fosse legata semplicemente dalla sua scelta su di loro e dalla loro scelta di seguirlo. Salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che voleva ed essi andarono da lui. Ne costituì Dodici – che chiamò apostoli -, perché stessero con lui e per mandarli a predicare con il potere di scacciare i demoni. Costituì dunque i Dodici: Simone, al quale impose il nome di Pietro, poi Giacomo, figlio di Zebedeo, e Giovanni fratello di Giacomo, ai quali diede il nome di Boanèrghes, cioè “figli del tuono”; e Andrea, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Tommaso, Giacomo, figlio di Alfeo, Taddeo, Simone il Cananeo e Giuda Iscariota, il quale poi lo tradì. (Mc 3,13-19) – È Gesù che li sceglie: il Vangelo è molto chiaro. I discepoli accolgono questa elezione e scelgono di seguirlo alle sue condizioni (Cfr. Lc 9,57ss). – La fraternità si caratterizza per la prossimità a Gesù e per la condivisione della missione. La prossimità non è qualcosa di sentimentale, ma significa una totale condivisione della sua vita e della sua esperienza umana, compresa la sua relazione con il Padre. La condivisione della sua missione è rappresentata dalla partecipazione al suo “potere” di combattere il male e di guarire oltre che diventare portatori della Parola del Regno.

– Tra gli apostoli emerge una grande diversità e, a parte le due coppie di fratelli pescatori di Cafarnao, non ci sono relazioni pregresse tra i componenti di questo gruppo o presunte affinità.

– Anche la presenza di Giuda Iscariota ci ricorda che la fraternità non si fonda su criteri di merito. Sempre nel cap. 3 del vangelo secondo Marco, un altro testo, pur nel suo carattere ermetico, ci dice qualcosa sulla fraternità evangelica: Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, mandarono a chiamarlo. Attorno a lui era seduta una folla, e gli dissero: “Ecco, tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle stanno fuori e ti cercano”. Ma egli rispose loro: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?”. Girando lo sguardo su quelli che erano seduti attorno a lui, disse: “Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre”. (Mc 3,31- 35).

– La questione della fraternità è posta in chiara tensione. Più avanti, sempre nel vangelo secondo Marco, Gesù chiarirà che chi lo vuole seguire deve lasciare i legami di fraternità naturale, per costruire legami tramite lui (Mc 10,28-30), in una fraternità che assume dimensioni “a due zeri”.

– La fraternità dei discepoli con Gesù è radicata nella comune osservanza della volontà di Dio Padre. Un ultimo testo evangelico definisce con chiarezza la dimensione della fraternità: Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. E non fatevi chiamare “guide”, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo. Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato. (Mt 23,8-12)

– All’interno della comunità dei discepoli di Gesù non ci sono gerarchie significative che giustifichino asimmetrie; non esistono criteri di anzianità e neppure di merito. Casomai esiste una maggiore responsabilità nel servizio tra chi è più grande (cosa significa potrebbe essere interessante approfondirlo). Gesù definisce chiaramente che nelle comunità dei discepoli tutti sono fratelli e nessuno può considerarsi padre, maestro o guida degli altri. Solo lui, il Cristo, è Maestro e Guida; il Padre è solo quello dei cieli. – La fraternità viene chiaramente definita come la dimensione costitutiva di una comunità in cui non ci sono onorificenze.

  1. Gli elementi costitutivi della fraternità (presbiterale)

“I fratelli non si scelgono (così come il presbiterio), né l’essere fratello e sentir l’altro come tale, nel presbiterio, è automatico, bensì frutto di queste quattro opzioni”.

a. Si è fratelli se si è figli dello stesso padre (e/o della stessa madre). La fraternità tra i cristiani e tra i presbiteri implica una scelta di fede; esige che ognuno viva come figlio del Padre che è nei cieli.

b. La fraternità presbiterale richiede di essere vissuta tra adulti, persone cioè si assumono le proprie responsabilità di fronte alla vita e agli altri. La fraternità assunta come dimensione propria e vissuta da adulti richiede di farsi carico dei fratelli.

c. La fraternità presbiterale richiede di aver superato e rinunciato alla pretesa di autosufficienza, riconoscendo il bisogno che io ho degli altri. Beati i poveri in spirito (Cfr. Mt 5,3).

d. La fraternità richiede di essere cementata con la stima reciproca. La stima può essere definita come la scoperta dell’amabilità incondizionata dell’altro, non per ciò che è capace di fare, ma per ciò che è chiamato ad essere. Spesso si definisce la fraternità come un elemento semplicemente dato e da riconoscere, per questo non le si attribuisce particolare valore perché, nella nostra cultura agli elementi soggettivi viene dato maggior valore rispetto a quelli oggettivi. Vale di più ciò che è più importante per me. Anche per noi preti è così. La fraternità è certamente qualcosa che precede le mie scelte, ma è del tutto relativo alle mie scelte la possibilità di vivere in modo significativo le relazioni fraterne che mi sono date. Anche in queste relazioni si gioca la mia libertà e la mia responsabilità. Mi posso chiedere: cosa mi aiuta e cosa mi impedisce nel vivere la fraternità in questo presbiterio? Qual è la stima che sento su di me per ciò che sono chiamato ad essere? Qual è la stima che comunico agli altri per ciò che sono chiamati ad essere? Come esprimo il mio bisogno degli altri? Come esprimo la mia responsabilità nei confronti degli altri preti del mio presbiterio? Come è chiamata in causa la mia fede e la mia relazione con il Padre dei cieli nel vivere la mia relazione fraterna con gli altri presbiteri della mia diocesi?

  1. Una fraternità nel ministero

Ciò che caratterizza la vita presbiterale, quindi anche la fraternità presbiterale, è la condivisione del ministero, lo era anche per il gruppo dei dodici. Certamente sono molto importanti le relazioni: esse costituiscono la base del nostro essere Chiesa, ma non si risolve tutto in esse. Molto importanti sono anche le idee e gli ideali, ma la nostra vita non si risolve in essi. La nostra fraternità si fonda, oltre che sulla condivisione della fede, in modo del tutto unico, sulla condivisione del ministero che ci è stato affidato in virtù del sacramento dell’ordine. Esiste tra noi una fraternità che ha una radice sacramentale, ma anche su questo occorre fare attenzione alla retorica. Accade a volte che facciamo molta fatica ad integrare momenti di fraternità condivisa nel presbiterio con l’impegno ministeriale. È come se il ministero fosse ritenuto un ostacolo alle relazioni. La teologia sul ministero dal Concilio Vaticano II ad oggi, invece, ci ricorda che il principio unificante della carità pastorale (l’anima del nostro servizio ministeriale) deve permeare tutte le dimensioni della vita del presbitero, quindi anche la fraternità condivisa con gli altri presbiteri. “L’agire pastorale è quindi la forma pratica della carità pastorale: senza questa la fraternità presbiterale sarebbe solo un affectus privo dello slancio della missione, senza legami fraterni la missione sarebbe solo una professione privata dell’amicizia cristiana. Per questo la missione pastorale può essere solo opera della comunione di tutta la chiesa che si alimenta alla fraternità presbiterale, anzi alla fraternità cristiana di tutto il popolo di Dio”.

– Non solo affectus: dobbiamo fare attenzione a non ridurre la fraternità ad un sentimento; essa è la forma ordinaria del nostro vivere evangelico, e negarla ci porterebbe fuori dal Vangelo. È importante che ce lo diciamo: la vita cristiana e la vita presbiterale è una vita essenzialmente fraterna.

– La fraternità nella missione: la missione è ciò che da spessore alla fraternità e le dà un orizzonte di testimonianza. Potremmo dire che per i presbiteri la fraternità entra tra le dimensioni “ordinate” del loro sacerdozio ministeriale. Come il loro sacerdozio è ordinato sacramentalmente a che tutti i battezzati siano sostenuti nel vivere il loro sacerdozio battesimale (Cfr. LG 10), potremmo dire che lo stesso accade per la fraternità: la fraternità che i presbiteri è ordinata alla fraternità battesimale dei cristiani e, insieme a tutti i battezzati, alla fraternità di tutti gli uomini (Fratelli tutti). Per questo la fraternità presbiterale, in modo suo proprio, ha un valore quasi-sacramentale come afferma Gesù nel vangelo di Giovanni (Gv 13,35: Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri).

– La fraternità è anche contenuto dell’annuncio. Essa è la diretta conseguenza del kerygma e l’esperienza ecclesiale dell’accoglienza del Vangelo. La testimonianza degli Atti degli Apostoli è molto chiara a proposito: lo stile di vita fraterno dei cristiani è l’elemento che dà credibilità all’annuncio del kerygma, come i segni operati da Gesù confermavano la sua predicazione. A volte nei nostri presbitéri facciamo davvero fatica a considerare la fraternità come un elemento da vivere e da alimentare. Spesso prevalgono le individualità, le complicità settarie. Non mancano le conflittualità per motivi generazionali, per provenienza geografica (ora che i nostri presbitéri hanno provenienze differenziate), per sensibilità ecclesiale e spirituale, per ambiti di formazione… insomma sembra che ogni motivo sia valido. Anche nell’organizzazione della pastorale, nonostante tutti richiamino la sinodalità, è molto difficile proporre cammini che siano realmente (e pregiudizialmente) condivisi da tutti. È difficile costruirli insieme perché prevale l’atteggiamento della delega. Tutti pensiamo di avere altro di più importante e urgente da fare. È difficile portarli avanti insieme perché accade che alcuni si sentano autorizzati ad esonerarsi dall’adesione e dalla promozione di questa o quella proposta. È difficile fare delle verifiche insieme perché spesso nei criteri prevalgono elementi che sono estranei alla logica evangelica (come per esempio: quanto è cresciuta la nostra fraternità?).

  1. Piste per far crescere la fraternità e l’amicizia presbiterale

Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me e io in voi. Vi ho chiamati amici (Gv 15,15). Come il tralcio non può portare frutto da sé stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli. (Gv 15,1-8) “La linfa che scorre tra la vite e i tralci nasce dalla chiamata di Gesù, si alimenta all’ascolto della sua Parola, ha la sua figura concreta nel dono eucaristico della vita di Gesù, domanda di dimorare nel suo amore che rivela la comunione con il Padre, chiede di perseverare nella conoscenza del comandamento dell’amore, si misura sulla fecondità di portare frutto insieme, si consola con il dono della gioia piena. Chiamata-ascolto, dono-dimora, conoscenza-preghiera, fecondità consolazione potremmo dire che sono i fili della solida trama della fraternità cristiana e in particolare presbiterale.”

a. Chiamata – ascolto: la fraternità è radicata sulla comune chiamata di Gesù; è lui che ci ha scelto (Mc 3). Concretamente questa esperienza va rinnovata attraverso il comune ascolto della Parola di Dio, nel discernimento condiviso, in uno stile di confronto che riporti la radice a questa dinamica fondamentale della nostra vita.

b. Dono – dimora: è l’esperienza della comunione che nasce dall’eucaristia e chiede di diventare comunione fraterna che si esprime nella condivisione, nella solidarietà riguardo al ministero, prossimità nel dolore e nei momenti di aridità, condivisione delle risorse ministeriali, sostegno nella carità e nella missione.

c. Conoscenza – preghiera: “il dimorare nell’amore è l’inizio di un cammino di maturazione cristiana e di crescita presbiterale lungo le età della vita e le stagioni del ministero”. Si tratta di una conoscenza reale delle dinamiche della vita su cui ognuno ha bisogno di essere accompagnato. L’esperienza presbiterale non è statica e non è sempre e solo in ascesa ideale. Ci sono passaggi che naturalmente espongono ad una particolare fragilità e nei quali la fraternità gioca un ruolo molto importante.

d. Fecondità – consolazione: sentirsi insieme parte dei frutti che si raccolgono dalla fecondità della missione, condividere la gioia del raccolto della messe che rappresenta l’obbiettivo della nostra chiamata (Gv 4). La fraternità significa anche condividere le gioie e le consolazioni per tutto ciò che di bello il Signore ci fa sperimentare. Ci possiamo chiedere: quali sono gli spazi concreti in cui viviamo e alimentiamo la nostra fraternità secondo questa dinamica evangelica? Come potremmo darci delle strutture fraterne che ci aiutino a vivere questa ricchezza di vita fraterna? Riteniamo che valga la pena investire delle risorse personali ed ecclesiali per alimentare la vita fraterna di noi presbiteri? Come integrare la nostra missione nelle dinamiche di fraternità che siamo invitati a vivere per esprimere pienamente ciò che siamo? La fraternità è una premessa, ma è anche una responsabilità che interpella la nostra libertà. Essa mette in gioco la nostra fede, la nostra chiamata al ministero e la fecondità del nostro servizio.