3 dicembre | Ritiro spirituale del Clero

Carissimi,

sono ad informarvi che, a causa del perdurare della pandemia da Covid-19, non sarà possibile tenere il nostro Ritiro Spirituale programmato per il prossimo giovedì 3 dicembre al Santuario di Monte Grisa. Cercheremo comunque di mantenere l’impegno dedicando nello stesso giorno un tempo adeguato per la meditazione e per l’adorazione eucaristica singolarmente o comunitariamente se si tratta di sacerdoti o religiosi che vivono nella stessa comunità. Il tema che vi propongo è: Come coltivare la consapevolezza di appartenere ad un unico presbiterio, indicato dalla Lettera Essere preti a Trieste nei numeri dal 4 al 9. Vi suggerisco di far tesoro di una serie di testi che seguono questa lettera, quali utili sussidi per il momento della meditazione e dell’adorazione. Colgo l’occasione per invitarvi a ricordare nella preghiera i numerosi confratelli che sono attualmente colpiti dal virus, in particolare quelli più anziani.

Affidandovi tutti alla materna protezione della Madonna della Salute, vi benedico di vero cuore.

✠ Giampaolo Crepaldi

Trieste, 30 novembre 2020, Festa di Sant’Andrea Apostolo

 

Testi su cui meditare

  1. Testi biblici

a)     Meditare sul mistero della Chiesa, così come l’ha voluta, amata e redenta il Signore Gesù e così come l’ha dipinta nella sua bellezza l’apostolo Pietro: Cristo è la “pietra viva, rifiutata dagli uomini ma scelta e preziosa davanti a Dio”; è la “pietra d’angolo” che fa di tutti noi, “quali pietre vive”, un “edificio spirituale, per un sacerdozio santo e regale”. Dalla Prima Lettera di Pietro: “Avvicinandovi a lui, pietra viva, rifiutata dagli uomini ma scelta e preziosa davanti a Dio, quali pietre vive siete costruiti anche voi come edificio spirituale, per un sacerdozio santo e per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo. Si legge infatti nella Scrittura: Ecco, io pongo in Sion una pietra d’angolo,scelta, preziosa, e chi crede in essa non resterà deluso. Onore dunque a voi che credete; ma per quelli che non credono la pietra che i costruttori hanno scartato è diventata pietra d’angolo e sasso d’inciampo, pietra di scandalo. Essi v’inciampano perché non obbediscono alla Parola. A questo erano destinati. Voi invece siete stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa. Un tempo voi eravate non-popolo, ora invece siete popolo di Dio; un tempo eravate esclusi dalla misericordia, ora invece avete ottenuto misericordia” (2,4-10).

b)     Meditare su come nel mistero della Chiesa diversità e unità s’incontrano, si abbracciano tra loro e si fanno inscindibili. San Paolo nutre il desiderio che in ogni comunità cristiana sia presente e operante la “perfetta unione di pensiero e di sentire” un’unione che trova fondamento ed energia solo nel “nome del Signore nostro Gesù Cristo”. E così deve essere anche del presbiterio, la cui unità ha Cristo come suo principio vitale e come suo senso profondo. Un’unità che non si riduce alla condivisione di un ruolo, ma che si radica in modo indelebile nel sigillo e nella grazia dell’Ordine sacro. Dalla Prima Lettera ai Corinti: “Vi esorto pertanto, fratelli, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo, a essere tutti unanimi nel parlare, perché non vi siano divisioni tra voi, ma siate in perfetta unione di pensiero e di sentire” (1,10).

c)     Meditare sul fatto che la vocazione al ministero ordinato è la storia di una persona che risponde all’invito di entrare nel gruppo di quei discepoli che continuano la missione degli apostoli, chiamati da Gesù “perché stessero con lui e per mandarli a predicare”. Dal Vangelo di Marco: “Ne costituì Dodici – che chiamò apostoli -, perché stessero con lui e per mandarli a predicare” (3,14).

  1. Dalla Lettera Essere preti a Trieste (nn. 4-9)

Appartenere ad un unico presbiterio

4.     Carissimi presbiteri, con l’ordinazione sacerdotale avete ricevuto un carattere indelebile che vi rende partecipi dell’Unico Sacerdozio di Cristo Capo e Pastore. Questo dono dal valore infinito è dono per il servizio ministeriale e mai può essere vissuto egoisticamente o solipsisticamente. L’ordinazione fa di ciascun presbitero il membro del corpo sacerdotale che è il presbiterio guidato dal Vescovo. Questa appartenenza al presbiterio diocesano sotto la guida del Vescovo deve essere costantemente rinnovata anche attraverso la partecipazione viva e zelante agli avvenimenti diocesani presieduti o promossi dal Vescovo, ai ritiri mensili, agli incontri decanali, alle giornate di aggiornamento del clero. È nella Liturgia che questa comunione si esprime nella sua forma più alta concelebrando alla Santa Messa Crismale, partecipando alla celebrazione del Corpus Domini, concelebrando con il Vescovo la Messa esequiale per i confratelli defunti.

5.     Questa realtà ontologico-sacramentale deve tradursi anche esistenzialmente in una solida consapevolezza che «in virtù della comune sacra ordinazione e della missione tutti i presbiteri sono fra loro legati da un’intima fraternità, che deve spontaneamente e volentieri manifestarsi nel mutuo aiuto spirituale e materiale, pastorale e personale, nelle diverse riunioni e nella comunione di vita, di lavoro e di carità» (LG, 28).
La diocesanità del presbitero presuppone e invera la sua cattolicità come appartenenza all’Unica Chiesa di Cristo, una per fede, sacramenti e governo, di cui la Diocesi è realtà territoriale. Nella universalità cattolica del Sacerdozio ordinato trovano il loro fondamento quelle luminose espressioni di generosità presbiterale e di aiuto fraterno tra Chiese particolari che sono i preti fidei donum e i presbiteri diocesani missionari.

6.     Ugualmente forte deve essere la consapevolezza che nessuno è prete per se stesso e che l’essere presbiteri significa essere collaboratori del Vescovo che guida la Chiesa diocesana e il suo presbiterio. Al Vescovo si è promesso filiale rispetto e obbedienza non per le sue qualità umane, ma perché successore degli Apostoli chiamato ad essere padre e pastore d’una Chiesa particolare. Solo in una prospettiva di fede è possibile al presbitero vivere in pienezza questa relazione di filiale obbedienza con il Vescovo come relazione d’amore con Cristo nella persona del Vescovo.
In questa prospettiva di fede ogni presbitero deve avere con il Vescovo un rapporto aperto, filiale e sincero. Non l’affettazione e la lusinga, ma la schiettezza e la sincerità devono caratterizzare il dialogo tra presbiteri e Vescovo, dialogo che non di rado si fa aiuto concreto al servizio del Vescovo nella sua missione attraverso consigli fraterni e semplici manifestazioni di affetto filiale.
Accogliere con fede le decisioni del Vescovo e accompagnarlo sempre, nella sua missione pastorale, con la preghiera è espressione di vero animo presbiterale.

7.     La nostra Chiesa tergestina, a causa di vicende storico-etniche, ha conosciuto e in parte ancora conosce divisioni e lacerazioni sin dentro il presbiterio. Le divisioni storiche tra esuli istriani, sloveni, italiani e altri ancora, sono ferite aperte nel cuore di Trieste. Certamente molti passi sono stati fatti per ricercare la comunione e la Chiesa di Trieste non può cessare di favorire l’unità nelle diversità.
Abbiamo fatto molti passi ma per essere coerenti con il Vangelo dobbiamo riconoscere che ne mancano ancora molti per vivere in pienezza ciò che Cristo ci chiede anche riguardo l’unità.
Quello che può essere motivo di divisione, in verità è, nella unità cattolica dell’essere Chiesa, formidabile ricchezza nella pluralità delle lingue, delle etnie, delle culture, delle identità storiche che a Trieste da secoli si incontrano. E il presbiterio diocesano non può che esprimere questa ricchezza e valorizzarla nella unità della fede.

8.     Non solo le diversità etnico-linguistiche interpellano il prudente esercizio del ministero pastorale ma anche le diversità di ministero e carisma nella comunità ecclesiale richiedono prudenza e saggezza nel discernimento e nella capacità di unità.
I diversi ministeri e carismi non devono essere motivo di divisione o di contrapposizione ma ricchezza di un corpo ecclesiale costituito da molte membra unite dalla stessa fede e nella comune carità e guidate dal Vescovo. L’unità che ogni presbitero è impegnato a costruire nel popolo cristiano deve essere cementata nel presbiterio diocesano attorno al Vescovo.

9.     L’unità e la comunione sempre da desiderare, ricercare e costruire non possono fiorire nella comunità cristiana se prima non sono fiorite nel presbiterio. L’unità nella comunione presbiterale è necessaria alla missione stessa della Chiesa. Cominciamo con il pregare assieme e gli uni per gli altri, non poniamo ostacoli all’azione dello Spirito così da riuscire ad abbattere le barriere etniche, linguistiche, culturali, ideologiche e caratteriali che impediscono la comunione. Pregare assieme tra presbiteri dovrebbe diventare sempre più la norma tanto più nelle occasioni in cui siamo chiamati a riunirci: pregare assieme come unico Presbiterio per tutta la Diocesi.
Quando non è possibile riunire l’intero presbiterio, non manchi però mai la preghiera comune dei presbiteri che condividono la stessa dimora o lo stesso impegno pastorale. La Liturgia delle Ore, la preghiera del Santo Rosario, l’Adorazione Eucaristica possono essere preziosissima espressione di comunione se due o più presbiteri vi attendono assieme unendosi in comune orazione per la Chiesa.

 

  1. Breve traccia per l’approfondimento sul tema L’unico presbiterio

a)     Il contributo del Concilio Vaticano II. Il Concilio Vaticano II ha riscoperto il presbiterio e lo ha inteso sia come l’insieme dei presbiteri di una stessa Diocesi attorno al vescovo sia come soggetto sacramentale. Prima del Concilio, quando si parlava di presbiterio lo si intendeva prevalentemente in termini architettonici, indicativo cioè dello spazio della chiesa riservato ai ministri ordinati, separato normalmente dalla navata mediante una balaustra. Con il Vaticano II questa parola è tornata ad avere un contenuto teologico, spirituale e pastorale. A questo proposito sono importanti alcuni richiami. I documenti del Concilio – in particolare il decreto Presbyterorum ordinis – parlano del prete non al singolare, ma al plurale. Questa particolarità va intesa correttamente perché ha un preciso significato: il ministero presbiterale non è un ministero individuale, ma comunionale. A questo riguardo, così si esprime la Pastores dabo vobis: “il ministero ordinato ha una radicale “forma comunitaria” e può essere assolto solo come “un’opera collettiva” (n. 17). Come preti dobbiamo pensarci al plurale: non come un “io”, ma come un “noi”, nel soggetto collettivo che è il presbiterio. Vale soprattutto per noi preti l’invito che Sant’Ignazio di Antiochia rivolgeva ai cristiani di Magnesia: “Non cercate di far passare per buono ciò che fate in privato e per conto vostro, ma preferite la forma comunitaria”.

b)     L’unicità del presbiterio. Su questo tema far tesoro di tre riferimenti magisteriali: – Lumen gentium: “I presbiteri costituiscono con il loro vescovo un unico presbiterio, sebbene destinati a uffici diversi (…) In virtù della comune sacra ordinazione e della missione, tutti i presbiteri sono fra loro legati da un’intima fraternità” (n. 28); – Christus Dominus: “Tutti i sacerdoti, sia diocesani sia religiosi, in unione con il vescovo partecipano all’unico sacerdozio di Cristo e perciò sono costituiti provvidenziali cooperatori dell’ordine episcopale. (…) Perciò essi costituiscono un solo presbiterio e una sola famiglia, di cui il vescovo è il padre” (n. 28); – Pastores dabo vobis (Giovanni Paolo II, 25 marzo 1992): “Dell’unico presbiterio fanno parte, a titolo diverso, anche i presbiteri religiosi residenti e operanti in una chiesa particolare. La loro presenza costituisce un arricchimento per tutti i sacerdoti ecc.” (n. 74). Da questi importanti testi del Magistero risulta chiaro che esiste un solo presbiterio, quali che siano i diversi uffici e incarichi pastorali o le diverse incardinazioni (chiesa particolare, istituti di vita consacrata…). Nessuna diversità può attenuare, e tanto meno annullare, l’unità del ministero ordinato e del riferimento alla figura del vescovo. Ciò che unisce, infatti, è sempre più importante di ciò che distingue. A questo riguardo valgono due parallelismi esplicativi: con il battesimo, siamo diventati membra del corpo di Cristo, incorporati alla Chiesa; con l’ordinazione, siamo diventati membra del corpus presbiterale, per servire la Chiesa; come la Chiesa non è la somma dei battezzati, ma è il corpo di Cristo, così il presbiterio non è la somma dei presbiteri, ma un soggetto in sé completo, di cui ogni presbitero è parte. Un prete staccato dal presbitèrio è un arto mutilato; e un presbitèrio privo della comunione di un solo membro è un corpo mutilato.

c)     Sulla fraternità nel presbiterio. Il Decreto conciliare Presbyterorum ordinis scrive: “I presbiteri (…) sono tutti tra loro uniti da intima fraternità sacramentale, ma in modo speciale essi formano un unico presbiterio nella diocesi al cui servizio sono assegnati sotto il proprio vescovo” (n. 8). Gli fa eco la Pastores dabo vobis: “La fisionomia del presbiterio è, dunque, quella di una vera famiglia, di una fraternità, i cui legami non sono dalla carne e dal sangue, ma sono dalla grazia dell’ordine; una grazia che assume ed eleva i rapporti umani, psicologici, affettivi, amicali e spirituali tra i sacerdoti: una grazia che si espande, penetra e si rivela e si concretizza nelle più varie forme di aiuto reciproco, non solo quelle spirituali, ma anche quelle materiali (74). Da questi significativi testi possiamo dire che il presbiterio non è la somma delle persone che svolgono la stessa funzione (come può essere ad esempio il corpo dei vigili urbani), ma una comunità di fratelli uniti tra loro dalla grazia sacramentale. Il presbiterio è una famiglia in cui i rapporti di comunione precedono quelli di natura pastorale (collaborazione, sostegno reciproco ecc.) o psicologica (amicizia, simpatia ecc.) In altre parole: la collaborazione pastorale, il reciproco aiuto, le relazioni affettive tra i sacerdoti conseguono la comunione presbiterale, non ne sono il fondamento. Con l’ordinazione i presbiteri entrano in un gruppo che preesiste e che ha legami speciali, e non generici di tipo psicologico o sociologico; non entrano in un’azienda, in un’organizzazione che produce servizi religiosi, ma in una famiglia spirituale, nata dal sacramento. La liturgia (lex orandi, lex credendi) indica questi legami in due significativi gesti compiuti dai presbiteri al momento dell’ordinazione di un nuovo presbitero: le mani stese durante l ‘invocazione dello Spirito e l’imposizione delle mani sul capo dell’ordinando. “Insieme con il vescovo anche i presbiteri impongono le mani sugli eletti in segno della loro aggregazione al presbiterio” (Pontificale romano, n. 124). Il gesto non esprime certo la partecipazione al potere episcopale di ordinare (il ministro dell’ordinazione è solo il vescovo); i presbiteri non pronunciano infatti la preghiera di ordinazione. Ma l’imposizione delle mani evidenzia l’accoglienza di un nuovo membro della famiglia. Pastores dabo vobis scrive: “Il presbiterio, nella sua verità piena, è un mysterium; infatti è una realtà soprannaturale, perché si radica nel sacramento dell’ordine. Questo è la sua fonte, la sua origine. È il “luogo” della sua nascita e della sua crescita” (n. 74). Questo aspetto della spiritualità dei presbiteri – la messa al bando dello stile individualistico e l’esaltazione dello stile comunionale – merita un’attenzione ben diversa di quanta ne abbia ricevuta fino ad ora. Ne sono prova l’individualismo pastorale e l’isolamento esistenziale. Riunirci spesso è bene, ma conta soprattutto essere uniti: “Il diavolo non ha paura di chi digiuna, fa le veglie e pratica la continenza, poiché ha tratto molti di costoro nel laccio della perdizione (multos traxit in laqueum ruinae). Ma quelli che vivono nella concordia e in modo fraterno nella casa del Signore, questi infliggono al diavolo dolore, timore e livore. Questa unità della moltitudine non solo tormenta il demonio, ma ottiene anche il favore di Dio”. (S. Bernardo, Sermone In Adventu, 4-5).