Messaggio per la Quaresima 2014

DIOCESI DI TRIESTE

 

Messaggio per la Quaresima 2014

LE PARABOLE DI GESÙ

MISERICORDIA DIVINA E SAPIENZA CRISTIANA

+ Giampaolo Crepaldi

 

Carissimi presbiteri, diaconi, consacrati e consacrate, fedeli laici della Chiesa di Trieste: “grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo” (1Cor 1,3).

 

Quaresima, preghiera e digiuno

 

1.        In questo secondo anno sinodale della nostra Chiesa, dedicato alla fede celebrata, e nel tempo liturgico della Quaresima, sono lieto di raggiungervi con questo mio Messaggio sugli insegnamenti delle parabole di Gesù, perché si tratta di insegnamenti che hanno la forza di rendere più viva e ricca la nostra vita spirituale.  La Chiesa, infatti, con la sua materna e secolare saggezza, ci invita a impegnare il tempo quaresimale per coltivare, con rinnovata intensità, la nostra vita spirituale attraverso un rinnovato incontro con Gesù, a partire dalla salutare memoria della sua morte e risurrezione, della sua Pasqua in cui si iscrive, da una parte, il mistero doloroso della nostra fragile umanità ferita dal peccato, e, dall’altra, il mistero glorioso della nostra salvezza con rinnovate possibilità di vita nuova, di vita resa santa dalla grazia misericordiosa del Signore. Nella sua pasqua di risurrezione ci sta la pasqua della nostra anima e della nostra persona. La Quaresima, pertanto, è tempo da rendere prezioso con un esame di coscienza accurato e sincero, con la preghiera fervorosa e con il digiuno per una salutare igiene spirituale. Essa fa risaltare la nostra miseria e la misericordia di Dio, i nostri peccati e la sua grazia, le tante povertà della vita e la sua ricchezza, la nostra debolezza e la sua forza, la nostra stoltezza e la sua sapienza, le nostre tenebre e la sua luce, il nostro inferno e il suo regno. La Quaresima ci impegna a darci un programma di vita spirituale impegnativo e serio, che richiede volontà e decisione. L’alternativa è quella di perdere il tempo della Quaresima, lasciando la nostra anima in balìa di tante malattie spirituali e senza adeguate cure mediche, nell’infelicità di una vita privata dell’orizzonte del cielo.

2.        A questo riguardo e per incoraggiarvi a rendere prezioso il tempo della Quaresima, consentitemi di raccontarvi una parabola, che non è del Signore Gesù, ma che ho ascoltato durante un corso di Esercizi Spirituali. Dopo un lungo periodo di vita in comune vissuto nel deserto, tre amici monaci si sono domandati se valeva la pena di continuare la loro esperienza. Di fatto, due l’abbandonarono, uno per dedicarsi alla coltivazione della pace e uno alla cura dei malati. Il terzo decise di restare. Passato un po’ di tempo, i due che avevano lasciato ritornarono stanchi e delusi dal confratello nel deserto. L’eremita, senza dire una parola, prese un catino, vi versò dell’acqua e con un gesto della mano li invitò a specchiarsi. Lo fecero, scorgendo con chiarezza il profilo dei loro volti. A questo punto l’eremita intervenne con la seguente ammonizione: “Chi è immerso nell’agitazione del mondo, non può vedere i propri peccati, se invece rimane nella solitudine, può vedere se stesso e passare dalla conoscenza di sé alla conoscenza di Dio”. Il santo eremita conosceva molto bene le buone intenzioni che avevano mosso i suoi due fratelli a lasciare il deserto: uno per obbedire a questa parola evangelica: Beato chi opera per la pace (Cfr. Mt 5,9), l’altro per obbedire a quest’altra: Sono stato malato e mi avete visitato (Cfr. Mt 25,36). Ma, il santo eremita sapeva anche che questi compiti non erano evangelici fino in fondo se, a monte, non c’era l’unione con Dio, quel di più capace di fare la differenza, quel di più che Cristo stesso, nell’incontro che aveva avuto a Betania con i suoi amici Lazzaro, Marta e Maria, aveva detto essere la parte migliore, quella che solo Maria aveva scelto.

 

3.        Nel tempo santo della Quaresima è quindi più che mai opportuno lasciarsi andare ad un abbandono fiducioso e sincero a Dio. E’ questo il modo migliore per farci del bene: come è possibile curare gli ammalati senza che prima non ci siamo fatti curare dal nostro medico? Sta qui la necessità di rientrare in noi stessi per scoprire che Dio può essere visto nella misura in cui prendiamo coscienza dei nostri limiti e dei nostri peccati. Sta qui la necessità di trovare in Quaresima tempi e spazi per appartarci, non tanto per scappare dai nostri doveri, ma per poi poterli compiere meglio. Sta qui il bisogno di dedicare le energie necessarie per una salutare coltivazione spirituale da farsi possibilmente con la guida di un padre spirituale, con la preghiera e con la pratica del digiuno, tutte cose che la Chiesa raccomanda in tempo di Quaresima.

 

4.        In primo luogo, la preghiera: costante, autentica, fervorosa. La preghiera deve sgorgare dal cuore prima di uscire dalle labbra e richiede anima e corpo votati a Dio e non al mondo e alle sue pervasive e insistenti e insidiose lusinghe. Può capitare che pregando, non si prega, perché lontani dallo spirito della preghiera. Per non incappare in una simile disavventura spirituale è bene sapere che la preghiera esige sempre purezza e fervore di cuore, che ci fanno sentire Dio vicino che ci chiede di fidarci e di affidarci a Lui.  Non scoraggiatevi poi se, quando vi dedicate alla preghiera, vi capitano distrazioni continue. Non desistete, anzi continuate, chiedendo con insistenza al Signore proprio il dono della preghiera. Sappiate che il demonio non lascia in pace coloro che pregano. Si racconta – anche questa non è una parabola di Gesù – che un sant’uomo mentre pregava, si addormentò. Il diavolo, che gli stava accanto, si guardò bene dal svegliarlo perché sapeva che il sant’uomo si sarebbe rimesso a pregare e a lodare Dio. Satana teme la preghiera, perché sa bene che può contrastare e rendere vana la sua opera. La preghiera è lo specchio dell’anima del cristiano, della sua vita, delle sue relazioni, del suo lavoro. In Quaresima bisogna trovare il tempo da dedicare alla preghiera. Consentitemi qualche suggerimento: una visita quotidiana in una delle tante belle chiese della nostra Diocesi; lettura orante di un brano del Vangelo; recita meditata del Rosario; fedeltà alla preghiera del mattino e della sera; preghiera prima dei pasti; preghiera in famiglia; preghiera dei due sposi accompagnata dalla loro personale benedizione ai figli; un pellegrinaggio a qualche nostro santuario mariano: Monte Grisa, Repentabor/Monrupino, Santa Maria Maggiore, Muggia Vecchia; soprattutto, la partecipazione alla Messa domenicale e, con regolare frequenza, al sacramento della Confessione. La vita quotidiana è spesso gravata da innumerevoli tribolazioni: mettiamoci il fuoco ardente della preghiera e dell’amore di Dio e le bruceremo completamente.

 

5.        Per la Quaresima la Chiesa ci chiede anche di digiunare e di astenerci dalle carni il Mercoledì delle Ceneri e tutti i venerdì. Il significato di questi precetti e di queste pratiche è quello di richiamarci al pentimento dei peccati, alla mortificazione personale e alla conversione per giungere all’unione con Cristo crocifisso e alla solidarietà con i nostri fratelli che vivono nella povertà. Gesù stesso, prima di dedicarsi alla sua missione pubblica, digiunò per ben quaranta giorni nel deserto. La Chiesa, fin dalle sue origini, ha assegnato grande importanza alla pratica del digiuno: “Assicurati che nessuno ti distolga da questa via tracciata dalla dottrina… se puoi sopportare tutto il giogo del Signore, sarai perfetto; se non puoi fa ciò di cui sei capace. Per quanto riguarda il digiuno osservalo secondo la tua forza” (Didachè 6, 1-3). Evidentemente, il digiuno dal cibo è un consiglio ascetico, e l’ascesi è una proposta non una legge, ma digiunare dal peccato, questo sì che è una legge che bisogna mettere in pratica.

Anche in tema di digiuno, consentitemi di offrirvi qualche suggerimento, pur lasciando all’intraprendenza spirituale di ognuno il personalizzarne l’esperienza. Con il digiuno del cibo si mortifica lo stomaco, ma, forse al giorno d’oggi, non sarebbe male cominciare a mortificare gli occhi. A questo riguardo, perché non iniziare con lo spegnere il televisore per qualche ora al giorno, togliendo tempo alle Venier, De Filippi e Littizzetto e ai Vespa, Santoro e Fazio di turno, per dedicarlo a Dio? Il tempo dedicato a Dio vi ossigenerà i polmoni dell’anima. Con gli occhi proviamo a mortificare anche i cattivi pensieri che una pressione massmediale martellante e ossessiva insinua nelle nostre intelligenze: è cattivo quel pensiero per cui la vita umana, soprattutto al suo inizio e alla sua fine, può essere abortita o conclusa con un intervento di eutanasia; è cattivo quel pensiero per cui non esiste più un unico e vero modello di famiglia, quello fondato sul matrimonio tra un uomo e una donna, ma tanti, perfino tra persone dello stesso sesso; è cattivo quel pensiero per cui si ritiene naturale che i genitori siano usurpati del loro nativo e fondamentale diritto a educare i propri figli, per cui nella scuola si può insegnare di tutto e di più al di fuori di ogni buon senso comune. Mi fermo qui, per dirvi che l’invito che la Chiesa ci fa a coltivare una salubre ecologia umana e spirituale è pieno di saggezza perché sa, da sempre, che le persone e la società, quando hanno per genitori i cattivi pensieri sopra citati, non vanno da nessuna parte.

 

Le parabole di Gesù

 

6.        Continuando la tradizione degli anni precedenti – quando per il tempo della Quaresima vi avevo invitato a sostare in preghiera e in meditazione su alcune pagine del Vangelo (gli Incontri di Gesù nel 2012 e i Miracoli di Gesù nel 2013) per conoscere e amare meglio e di più il Signore Gesù – quest’anno vi propongo di riflettere sulle Parabole di Gesù che – pur essendo racconti immaginari, anche se verosimili perché i protagonisti non sono esseri fantastici ma persone in carne ed ossa – contengono alcuni insegnamenti fondamentali per la nostra vita cristiana. Gesù utilizzava le parabole, con il loro linguaggio semplice e immediato, perché il messaggio che voleva trasmettere arrivasse subito e anche perché poteva convincere immediatamente. Il fatto che Gesù abbia usato il codice linguistico della parabola ci sta a dire che non gli garbavano molto le contorsioni intellettuali, i sottili sofismi e le discussioni interminabili che invece piacciono tanto a noi. Raccontate e predicate ai cristiani lungo i secoli, le parabole hanno segnato in profondità la nostra cultura e risulta assai interessante venire a scoprire che il termine italiano con cui indichiamo tutto ciò che diciamo – parola –, viene dal latino parabola, attraverso il latino medievale paraula. Così parlare da parabulare, raccontare parabole. Anche questa, in fin dei conti, è una stimolante indicazione su come dovremmo imparare a parlare! In genere, gli studiosi dei Vangeli suddividono le parole di Gesù in tre categorie, secondo le loro specifiche finalità. C’è quindi il gruppo delle parabole del Regno, quello delle parabole della misericordia e quello delle parabole dell’intelligenza cristiana.

 

 

 

Le parabole del Regno

 

7.        Le parabole del Regno (Regno di Dio e Regno dei Cieli sono espressioni evangeliche equivalenti) sono narrate da Gesù per istruire i suoi ascoltatori sull’approdo finale della storia quando Dio manifesterà il suo assoluto potere e il mondo sarà finalmente rinnovato. Riguardano, cioè, il senso e il fine della storia. Il fatto che trattino del fine e della fine della storia non significa che i loro insegnamenti non abbiano niente a che fare con la storia che stiamo vivendo. Tentati come siamo a imporre le nostre categorie, le nostre attese e speranze, le nostre impressioni e i nostri progetti, le parabole del Regno ci interpellano invece sull’uso della nostra libertà, su come accogliere e fare la volontà di Dio, sui metodi e i tempi di Dio spesso diversi dai nostri. Alla fine, le parabole del Regno ci annunciano che Gesù stesso è il Regno del Padre Celeste, perché la sua umanità è tutta obbediente alla volontà del Padre, tutta disponibile a Lui. Queste le più significative parabole del Regno: la parabola del Seminatore (Mt 13,1-8; 18-23); la parabola della zizzania (Mt 13,24-30); la parabola dell’agricoltore fiducioso (Mc 4,26-29); la parabola del chicco di senapa e del pugno di lievito (Mt 13,31-33); la parabola del tesoro nascosto e della perla preziosa (Mt 13, 44-46); la parabola della rete da pesca (Mt 13,47-50). Qui non possiamo soffermarci su tutte, costretti dall’economia del testo a privilegiarne alcune e lasciando quindi le altre alla lettura e riflessione personali.

 

8.        La parabola della zizzania (Mt 13,24-30). La parabola ci racconta di un seminatore che, guardando il campo che aveva seminato, si accorge che il seme buono che aveva sparso è costretto a convivere con il seme dell’erba cattiva che somiglia a quello buono fino al punto di essere indistinguibile nella fase della crescita. E anche il tentativo di separare il seme buono da quello cattivo si presenta come un tentativo rischioso che avrebbe, se messo in atto, danneggiato il seme buono. Cosa voleva insegnare Gesù con questa parabola? Gesù prevedeva e accettava quello che scandalizzava gli uomini di tutti i tempi: che il male resti mescolato al bene, e i buoni ai cattivi; che il Regno di Dio si faccia senza che nessuno possa essere anticipatamente escluso dalla sua costruzione, o anticipatamente giudicato. Evidentemente si tratta di una bella complicazione, e non c’è niente di male se ci interroghiamo sul perché. La complicazione trova una sua ragionevole soluzione quando riflettiamo su un dato molto semplice: il male è mescolato al bene già nel cuore di ogni uomo. Distinguere tra buoni e cattivi rischia di essere un’operazione ipocrita fin quando non ci rendiamo conto che nessuno di noi può collocarsi definitivamente da una parte o dall’altra. È nel terreno del nostro cuore che si mescolano la semina del Padrone buono e quella del Nemico, ed è nella libertà del nostro cuore che si decide se la zizzania soffocherà il grano, o se il grano prenderà il sopravvento. Questa riflessione la possiamo applicare anche alla Chiesa, soprattutto quando incontriamo qualche moralista – ahimè, quello dei moralisti è un partito in forte crescita! – che si scandalizza o disprezza la Chiesa, rimproverandola continuamente di non essere abbastanza pura. Contro questi signori, il grande scrittore francese Bernanos scrisse: “Tanti vorrebbero una Chiesa pulita e gradevole come un albergo di lusso dove sono ospitate soltanto persone raffinate, ma se venissero accontentate scoprirebbero con loro disappunto che in una Chiesa così fatta essi per primi non potrebbero entrare”. Alla chiesa-albergo di lusso è decisamente più evangelico credere alla chiesa-ospedale da campo di papa Francesco.

 

9.        La parabola del tesoro nascosto e della perla preziosa (Mt 13,44-46). In questa parabola si parla di commercianti – quanto radicate e, spesso, ingiustificate sono le nostre riserve nei loro confronti! – che Gesù sceglie per esemplificare la costruzione del Regno. Gesù li sceglie perché hanno il senso della preziosità e il fiuto per l’interesse e l’affare, in questo caso specifico, per un tesoro nascosto e per una perla. A dispetto di tanta retorica, anche ecclesiale, sul credere e il fare cristiano in maniera disinteressata, Gesù in queste due brevi parabole ci invita a credere e a fare proprio perché non esiste un interesse più grande e importante se non quello per il Regno. Non solo, ma dentro all’interesse per il Regno trovano posto anche gli interessi materiali in una prospettiva di ordine e di bene. Tutto questo vuol dire che lontani da Dio non si costruisce né una torre, né un popolo, né una città, né una famiglia e nemmeno un buon patrimonio che duri nel tempo. Certo il Regno di Dio è spirituale, ma nel senso che rende degno dello spirito anche quello che è materiale. Distinguere gli interessi spirituali da quelli materiali può essere pedagogicamente utile, ma a patto che gli interessi spirituali si dimostrino molto ben incarnati fino a valorizzare tutta la materia.

 

Le parabole della misericordia

 

10.      La misericordia è un’espressione che richiama la mamma. La parola originale ebraica, quella che viene usata nella Bibbia, si riferisce all’attaccamento viscerale che una donna prova verso il figlio che ha portato in grembo. “Ogni figlio sembra bello a mamma sua”, afferma simpaticamente un proverbio popolare; ogni figlio è per la madre unico, irripetibile, prezioso; per una madre il figlio è sempre di più degli errori che commette; la madre donerebbe volentieri la vita per il figlio. Nella misericordia c’è tutta la parzialità di una madre. Qualcosa di analogo bisogna dire del mistero della paternità. La misericordia, tuttavia, non sopprime il giudizio e non gli toglie lucidità. Il giudizio (e la giustizia), nella madre e nel padre, nasce sempre da una misericordia più grande, e da una speranza indomabile. E se a volte, una madre e un padre vengono meno a questo ideale, è solo perché anch’essi sono segnati dal peccato originale che ha loro rovinato l’anima e il corpo. A partire dall’esperienza umana della misericordia è facile intuire quanta misericordia debba esserci nel grembo di Dio che ha creato l’uomo e lo ha messo al mondo. La Rivelazione di Cristo è, infatti, tutta orientata a che l’uomo comprenda Dio come Padre misericordioso, ma avvertendo anche che questa misericordia non può essere derisa impunemente senza distruggere se stessi. Gesù è il fratello primogenito che conosce la misericordia del Padre Celeste, e ci parla di essa con tutte le sue parole (soprattutto con le parabole), con tutte le sue azioni, con tutta la sua esistenza. Le più significative parabole della misericordia presenti nei quattro Vangeli sono le seguenti: la parabola del Figliol Prodigo (Lc 15,11-32); la parabola del Buon Samaritano (Lc 10,29-37); la parabola dell’umile pubblicano (Lc 18,9-14); la parabola della pecorella smarrita (Lc 15,4-7); la parabola della moneta perduta (Lc 15,8-10); la parabola del debitore malvagio (Mt 18, 23-35).

 

11.      La parabola del Figliol Prodigo (Lc 15,11-32). È una parabola conosciutissima che ci parla appunto di un figlio prodigo, cioè scialacquatore che ha abbandonato il padre, la casa, il lavoro e una vita dignitosa per il denaro, i viaggi e i divertimenti. Come era prevedibile, il prodigo finisce in miseria fino al punto di diventare guardiano di porci: il massimo dell’abiezione per i giudei che si schifavano perfino di nominare quelle bestie che erano considerate impure. Fin qui la storia del prodigo. Storia risaputa e ancora attuale con tanti padri e tante madri spettatori impotenti di figli votati, per stupidità e corruzione, alla propria distruzione.

Ma, ritorniamo alla parabola e al suo luminoso messaggio di misericordia. Infatti, dopo il figlio prodigo, entra in scena il padre misericordioso che conserva intatta l’immagine del figlio e custodisce nel cuore quella dignità filiale che il figlio ha buttato via: lo attende senza stancarsi e lo riconosce già da lontano. Nel celebre quadro che Rembrant ha dedicato a questa parabola, il figlio, inginocchiato davanti al Padre, affonda la faccia nel suo grembo: egli non ha più volto, la sua identità è tutta nascosta nel grembo del Padre che lo rigenera. Del figlio si vedono solo i piedi tormentati dal lungo viaggio, le calzature distrutte. Del Padre si vedono le due mani che abbracciano e stringono il figlio: una di queste due mani è robusta e maschile e l’altra è delicata e femminile, come se il grande pittore ci volesse comunicare che la paternità di Dio comprende in sé ogni forma di tenerezza. Al figlio, anche se prodigo, il padre restituisce la vita e la dignità filiale; a quel figlio spalanca le porte di casa, lo riveste con “il vestito più bello”, con comode calzature e “un anello al dito”. L’anello di cui parla la parabola, probabilmente non è un gioiello, ma è “l’anello del sigillo”, quello che allora permetteva di siglare documenti e stabilire patti e contrarre affari: il padre gli ridà perciò anche una dignità sociale e i mezzi per esercitarla.

La parabola non finisce qui, perché, dopo il figlio prodigo e il padre, entra in scena l’altro figlio, quello maggiore, che considera tutta quella accoglienza come un’offesa fatta a lui, a lui che è rimasto sempre obbediente, fedele e laborioso. La rabbia del figlio maggiore non scompone il padre che sembra dirgli che se non riconosce il fratello perduto, se non prova gioia per il suo ritorno, allora nemmeno lui è un figlio: anche lui si è perduto perché non ha capito nulla del padre, nulla dei suoi tormenti e nulla della sua gioia. Così la parabola mette i farisei di ogni tempo davanti a questa domanda: l’uomo può considerarsi davvero figlio di un Dio misericordioso, se questa misericordia non rigenera una fraternità tra gli uomini? La risposta è nella persona stessa di Gesù, venuto come nostro fratello, primogenito proprio perché il Padre era pieno di misericordia nei nostri riguardi; perciò il suo posto era proprio alla tavola dei peccatori, come medico e salvatore.

 

12.      La parabola dell’umile pubblicano (Lc 18, 9-14). “…per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri”, Gesù racconta la parabola del fariseo e del pubblicano che salgono contemporaneamente al tempio per pregare. Il fariseo avanza verso Dio e comincia a sciorinare le sue osservanze e i suoi giusti comportamenti fino al punto di dire: “…non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano”.  Credo che siate d’accordo nel giudicare un simile comportamento quantomeno strampalato: come si può stare davanti a un Dio misericordioso e pensare di non avere bisogno di misericordia? È il dramma del fariseismo spirituale: illudersi di stare faccia a faccia con Dio, mentre, di fatto, ci si compiace nel contemplarsi allo specchio come un narciso.

Il pubblicano sa bene di essere lontano da Dio e non osa “nemmeno alzare gli occhi al cielo”. Però a Dio parla, a Dio chiede misericordia, di Dio conosce il cuore. “…si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore”. E Dio voleva avere pietà: per questo aveva mandato il suo Figlio. Senza saperlo il pubblicano implorava l’avvento di Cristo: per questo “tornò a casa sua giustificato”. Non era capace di salvarsi, ma era capace di domandare e implorare un Salvatore.

 

13.      La parabola della pecorella smarrita (Lc 15,4-7). La parabola ci racconta che chi ha un gregge di cento pecore, non trascura la pecorella mancante. La cerca, la trova, se la carica sulle spalle, la riporta all’ovile e poi festeggia il ritrovamento con gli amici pastori. La parabola è rassicurante e apre come uno spaccato di cielo: con Gesù, la vicenda del buon pastore che si prende cura della pecorella smarrita sta davvero accadendo sulla terra, e in cielo si fa festa ad ogni peccatore ritrovato. Come ogni parabola che si rispetti, anche in questa bisogna fare i conti con l’altra faccia della medaglia, qui rappresentata dai farisei e dagli scribi che non trovano di meglio che brontolare e mormorare perché vedono che pubblicani e peccatori si avvicinano e sono accolti dal Maestro: costoro cominciano a gustare il paradiso, i farisei e gli scribi… Questa parabola era molto cara ai primi cristiani che adornavano le loro tombe con l’immagine del buon Pastore: sapevano che Lui li avrebbe accompagnati in cielo. Il richiamo al buon Pastore è presente anche oggi nell’attuale liturgia funebre.

 

Le parabole dell’intelligenza cristiana

 

14.      Vengono generalmente denominate parabole dell’intelligenza cristiana quelle parabole che, in lungo e in largo, trattano i temi della stoltezza e della stupidità umane. In tutte queste parabole è presente il pressante invito a “camminare nella luce”. Di che luce si tratta? I Vangeli ci dicono che Cristo stesso è la luce; Lui afferma: “…sono la luce del mondo” (Gv 9,5); “…chi segue me non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (Gv 8, 12). Alla luce di Cristo e della sua Parola, l’intelligenza impara a rinnegare quella stoltezza e quella stupidità che tendono a rinchiudere l’uomo in calcoli e previsioni sbagliate. Al fuoco bruciante dell’attesa di Lui, l’intelligenza dell’uomo impara a prendere quelle decisioni radicali e urgenti che non ammettono tentennamenti, torpori e ottusità. Le più significative parabole dell’intelligenza cristiana presenti nei quattro Vangeli sono le seguenti: la parabola del ricco stolto (Lc 12,16-21); la parabola del ricco epulone (Lc 16,19-31); la parabola dell’amministratore infedele (Lc 16,1-9); la parabola delle fanciulle stolte (Mt 25,1-12); la parabola degli operai della vigna (Mt 20,1-16); la parabola dei talenti (Mt 25, 14-30).

 

15.      La parabola del ricco stolto (Lc 12,16-21). A dire il vero, il protagonista della parabola, almeno a prima vista, sembra che non manchi di intelligenza: ha successo negli affari, sa organizzarsi e programmare. Era un uomo, come dice il testo, che “ragionava tra sè”, magari almanaccando sulla maniera migliore di godersi la vita: “Anima mia,… mangia, bevi e divertiti”. L’unico conto che non aveva fatto era con la voce di Dio che gli dà dello stolto: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”. Nel progetto di vita che si era dato mancava la cifra più significativa: che la vita non gli apparteneva, che il tempo gli poteva essere improvvisamente sottratto, che lui stesso – cioè, la sua anima – apparteneva ad un altro, che i suoi beni non lo avrebbero accompagnato all’ultimo viaggio e non gli avrebbero dato sollievo nell’ultimo giudizio. L’uomo ricco era stolto perché non ragionava sulle dimensioni profonde dell’esistenza, altrimenti avrebbe capito che, a riguardo dei beni essenziali, l’uomo è sempre un mendicante. L’unica vera intelligenza è quella di chi cerca Gesù, il Signore al quale appartenere per sempre.

 

16.      La parabola delle fanciulle stolte (Mt 25,1-12). Questa parabola mette in scena un gruppo di dieci fanciulle, tutte amiche della sposa: cinque sagge perché vanno alla festa nuziale – festa che, normalmente, prevedeva cortei notturni e orari imprevedibili – ben equipagghiate di lucernetta di terracotta e di orcietto con l’olio per alimentarla; cinque sono stolte, perché vanno senza nulla. Queste ultime, per la loro imprevidenza, pagano un conto piuttosto salato: quando lo sposo giunge e la gioia tocca il suo culmine, esse cominciano a vagare alla ricerca di olio per le loro lampade. Anche in questa parabola delle dieci fanciulle, in questione è l’intelligenza del discepolo: non si può attendere la festa di Dio, anche se sembra tardare, senza prendere le dovute precauzioni, senza avere di che alimentare la propria attesa, senza un po’ di olio che aiuti a rischiarare le tenebre.

 

17.      La parabola dei talenti (Mt 25,14-30). Il protagonista della parabola è un padrone che parte per un viaggio senza far conoscere l’ora del suo ritorno. Perciò il tempo dei servi è il tempo dell’attesa: non lo possono determinare, lo devono vivere.

Alcuni di questi servi, convinti che il padrone avrebbe tardato a rientrare, spadroneggiano e straviziano: a causa dell’assenza del Signore, ritengono di non dovere mai rendere conto e di essere al riparo da punizioni (cfr. a questo riguardo Mt 24,45-51). Il mondo intero è un grande scenario in cui non pochi uomini giocano questa parte, solo perché pensano che Dio non c’è, o almeno non sembra esserci.

C’è anche il gruppo dei servi buoni e fedeli che vivono l’attesa del ritorno del loro padrone con la consapevolezza che il tempo è destinato al loro lavoro: hanno ricevuto dei talenti, anche se in quantità diversa, e devono farli fruttare. Quando il padrone ritornerà, essi gli consegneranno il frutto delle loro fatiche e riceveranno in dono doni infinitamente più grandi: saranno associati alla autorità e alla gioia del loro Signore.

C’è anche un terzo gruppo, composto da chi non approfitta della mancanza del padrone, ma nemmeno si dà da fare, chiudendosi in una inconcludente pigrizia. Per Gesù, anche costoro sono dei servi malvagi. Tragico modello di quanti, giunti al termine della vita, non saprebbero dire a cosa sia servita la loro esistenza.

Questa parabola, predicata incessantemente dalla Chiesa, ha fortemente determinato la nostra cultura e il nostro costume orientandoli al dovere di usare responsabilmente i doni, cioè i talenti che Dio ci ha concesso.

 

 

 

Conclusione

 

18.      Dalla lettura delle parabole di Gesù, risultano tre parole–chiave: speranza, misericordia, intelligenza responsabile.

 

a)        La speranza, prima di tutto, perché Gesù ha parlato insistentemente del Regno di Dio, espressione che, spesso, risulta oscura a noi cristiani del XXI secolo. Con questa espressione Gesù voleva comunicarci un messaggio semplice e chiaro: esso annuncia il dominio di Dio sulla storia e sulle vicende umane, un dominio che nessuno riuscirà mai a strappargli, un fine lieto e glorioso della storia umana che nessuno riuscirà ad impedire. Con la preghiera del Padre Nostro, proposta direttamente da Gesù, il cristiano prega il Padre celeste con instancabile fiducia: “Venga il tuo Regno”. Con questa preghiera – che ha il respiro della speranza – egli afferma che la storia è nelle mani di Dio e che l’amore del Padre trionferà certamente sul male e su tutte le ostilità. Egli non pretende di sfuggire al male e ai suoi drammatici condizionamenti, ma sa che, in Cristo Signore, è stata donata la possibilità di vincerlo.

 

b)        La misericordia è l’altra parola-chiave. Essa ci consegna e alimenta una consolante convinzione: per gioire dell’esistenza abbiamo bisogno di un grembo dove veniamo accolti e generati e custoditi prima di ogni nostro merito e, questo, per tutte le fasi della nostra esistenza terrena. La vita è buona quando le persone si custodiscono reciprocamente, quindi si conoscono (con nascono) e si amano reciprocamente. La vita non è buona quando il peccato ferisce gli occhi e il cuore, quando l’uomo diventa lupo per l’uomo, quando perfino padre e madre si dimenticano della loro creatura. Allora il bisogno di misericordia si fa struggente e doloroso. Il cristianesimo non è altro che la Rivelazione della misericordia di Dio: di un grembo – quello divino – che ci mantiene costantemente in vita e costantemente ci rigenera tutte le volte che veniamo meno. Per questo la Chiesa è chiamata Madre, perché in lei incontriamo costantemente la misericordia che il Padre celeste offre al mondo.

 

c)         Infine la parola intelligenza. Essa consiste nel lasciare penetrare la luce della Rivelazione di Cristo dentro la nostra mente e il nostro cuore; nell’intuire e assecondare le tracce del disegno di Dio nella storia personale e sociale, nel ricondurre a unità la frammentarietà degli avvenimenti e dei progetti; di coltivare tutto l’umano in maniera degna della santa umanità del Cristo. Evidentemente per fare questo e per farlo bene ci vuole tenacia; lucidità per fare fronte alle contraddizioni; disponibilità ad accettare i tempi di maturazione; capacità a ricominciare dopo ogni fallimento; certezza sempre ritrovata che alla fine l’Amore vincerà ogni resistenza. Bisogna mettere a disposizione di Dio le proprie energie, senza pigrizia, né torpore, né pusillanimità. E, soprattutto, senza calcolo e senza la pretesa di vedere i frutti del proprio lavoro. Un’operosità umile e generosa, che risponda in pieno alla vocazione che il Signore ha assegnato a ciascuno.

 

Carissimi fratelli nel sacerdozio, diaconi, religiosi/e, consacrati, catechisti e fedeli tutti, a conclusione di questo Messaggio vorrei esortarvi ad affidare alla Vergine Maria – la Madre che si fece discepola del Figlio Gesù anche nell’ascolto delle parabole – i buoni e i santi propositi di conversione che vogliamo fare per rendere autentico il tempo santo della Quaresima: sia Maria, Madre e Discepola del Signore, la nostra Maestra che ci comunica e insegna il Vangelo della speranza, della misericordia e della sapienza.