10_10_2013

L’Enciclica Lumen Fidei presentata da S.Em. il card. Tettamanzi

Per una prima lettura dell’enciclica Lumen fidei

Ho accettato volentieri l’invito che mi è stato rivolto a presentare l’enciclica Lumen fidei (la luce della fede) – la prima di papa Francesco – anzitutto perché mi sento personalmente interpellato dal problema della fede: un problema, questo, fondamentale e permanente, che coinvolge non solo i credenti ma anche ogni uomo, che interessa non solo la Chiesa ma anche la stessa società umana. Mi sento poi interpellato dal problema della fede anche nel senso detto dall’apostolo Pietro che nella sua Prima Lettera chiede ai cristiani di essere “pronti sempre a rispondere a chiunque domandi ragione della speranza che è in loro” (1 Pt 3,15).

A ciascuno di voi dico subito un mio sentimento interiore: considero questa enciclica, nell’insieme delle parole e dei gesti che caratterizzano – non poche volte in modo sorprendente – il ministero di papa Francesco, come un suo particolare dono che ci viene offerto in questo preciso Anno della fede, anno indetto da Benedetto XVI per tutta la Chiesa nel 50° anniversario del Concilio Vaticano II, in ordine a vivere la fede nella sua verità e autenticità, e quindi in tutta la sua bellezza e serietà, come singolare fortuna e responsabilità: come qualche cosa di vivo, di dinamico, di concreto, in una parola di eminentemente personale e insieme comunitario.

Il mio desiderio è di mostrarvi una specie di foto globale e sintetica dell’enciclica di papa Francesco, una foto che ci fa vedere, racchiuse tra un’introduzione e una preghiera conclusiva, la sua struttura di base, le sue articolazioni principali quali si ritrovano nei quattro capitoli secondo cui l’enciclica si sviluppa. Questa foto riprende e porta a compimento due altre foto precedenti, che già si potevano vedere negli anni del pontificato di Benedetto XVI: la prima ritrae la sua enciclica sulla carità (Deus caritas est) e la seconda quella sulla speranza (Spe salvi). Ora il “prezioso lavoro” compiuto in questi mesi dal Papa emerito, che aveva già “quasi completato” l’enciclica sulla fede, viene assunto e completato con “ulteriori contributi” da parte di papa Francesco.

Ci muoviamo così all’interno della triade fondamentale delle virtù teologali, che costituiscono i veri pilastri portanti e qualificanti l’intera vita cristiana, anzi lo stesso essere del cristiano. Ci torna utilissima al riguardo una citazione dell’enciclica Lumen fidei: “Nella fede, dono di Dio, virtù soprannaturale da lui infusa, riconosciamo che un grande Amore ci è stato offerto, che una Parola buona ci è stata rivolta e che, accogliendo questa Parola, che è Gesù Cristo, Parola incarnata, lo Spirito Santo ci trasforma, illumina il cammino del futuro, e fa crescere in noi le ali della speranza per percorrerlo con gioia. Fede, speranza e carità costituiscono, in un mirabile intreccio, il dinamismo dell’esistenza cristiana verso la comunione piena con Dio. Com’è questa via che la fede schiude davanti a noi? Da dove viene la sua luce potente che consente di illuminare il cammino di una vita riuscita e feconda, piena di frutto?” (n. 7).

Non possiamo sfuggire ad un interrogativo, che ci viene spontaneo: Ma perché un’enciclica sulla fede? Sono tantissime persone  quelle che osservano con attenzione i gesti personali di papa Francesco: gesti caratterizzati da una grande solidarietà verso gli ultimi, come ad esempio la lavanda dei piedi ai giovani carcerati il Giovedì santo e la presenza tra i rifugiati e i profughi a Lampedusa; e gesti carichi di vibrante richiesta di giustizia e di pace per il Medio Oriente e per tanti altri Paesi della terra. Ma proprio in un contesto come questo si fa più forte la domanda posta: perché un’enciclica sulla fede? Viene da rispondere con un altro interrogativo: non è che il papa ritenga la fede della Chiesa e dei cristiani la parola più urgente per l’uomo d’oggi, l’annuncio più necessario per riavere speranza, la forza più risolutiva dei suoi problemi e dei suoi drammi? È dalla luce e dal calore della fede che l’uomo può compiere il suo cammino di vita.

Sì, questa è la convinzione della Chiesa, e del Papa in particolare, come emerge dalle primissime righe dell’introduzione all’enciclica, che ci rimandano in modo esplicito ad una persona viva e concreta, una persona realmente incontrabile e sperimentabile da ciascuno di noi: il Signore Gesù. Così leggiamo: “La luce della fede: con quest’espressione, la tradizione della Chiesa ha indicato il grande dono portato da Gesù, il quale, nel Vangelo di Giovanni, così si presenta: ‘Io sono venuto nel mondo come luce, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre’ (Gv 12,46)” (n. 1).

Non siamo più nel mondo pagano, che ha sì “il culto al dio Sole”, ma il cui dio “non illumina tutto il reale e il suo raggio è incapace di arrivare fino all’ombra della morte, là dove l’occhio umano si chiude alla sua luce”.  Siamo nel mondo nuovo, quello di Cristo Gesù, il vero sole che ci dà la possibilità di vedere, di vedere “con una luce che illumina tutto il percorso della strada, perché viene a noi da Cristo risorto, stella mattutina che non tramonta”. Una possibilità di vedere, questa, che sfocia in un’ulteriore e più importante possibilità: quella di vivere, perché i raggi di questo vero sole “donano la vita”, come diceva lo scrittore cristiano Clemente alessandrino. Sì, donano la vita, e questo a tal punto che il credente giunge sino a morire pur di essere coerente con la sua fede. È questa la novità cristiana che si oppone radicalmente al mondo pagano di sempre e al suo culto al dio Sole. Lo testimonia un martire della prima ora con questa sua efficacissima risposta a chi appartiene al mondo pagano: “Per la sua fede nel sole – afferma san Giustino Martire – non si è mai visto nessuno pronto a morire”.

Penso che sia di grande significato per tutti noi la “novità cristiana” di cui è segnata la fede: una novità che ci stimola e ci aiuta a ricuperare e a rilanciare il carattere di luce proprio della fede di fronte alla nostra cultura attuale che, riprendendo il pensiero del giovane Nietzsche, oppone tra loro il credere della fede e il ricercare della razionalità: la prima sarebbe una luce illusoria o più precisamente un salto nel buio e una caduta nel vuoto, la seconda invece una luce vera e degna dell’uomo considerato nel suo radicale bisogno di ricerca continua, di audacia nei progetti, di piena libertà nelle iniziative.

Ma la verità è un’altra, così come ci viene rivelata da Dio e come è oggetto della nostra stessa esperienza umana: non c’è fede senza razionalità, anche perchè il credente coincide con la persona che viene coinvolta nella sua unitotalità di corpo-cuore-mente e nella sua piena libertà nel rispondere a Dio e alla sua chiamata. La fede non rifiuta affatto la razionalità, ma positivamente la esige, la purifica, la eleva, la rende inscindibilmente alleata con la fede stessa. E – quale aspetto ulteriore d’indubbio interesse – potremmo rilevare come la stessa razionalità umana ha impresso in sè un dinamismo che la muove e la conduce su sentieri che portano alla fede.

Nella sua enciclica il Papa ci chiede di assumere una prospettiva ancora più ampia e più incisiva, una prospettiva cioè che si distende sull’intero arco della storia umana – che è storia della salvezza – e che si configura come profondamente più eloquente per il nostro vivere quotidiano. Ecco i termini usati dal Papa nell’esprimere il carattere proprio e “originale” della luce della fede: “La luce della fede possiede un carattere singolare, essendo capace di illuminare tutta l’esistenza dell’uomo. Perché una luce sia così potente, non può procedere da noi stessi, deve venire da una fonte più originaria, deve venire, in definitiva, da Dio. La fede nasce nell’incontro con il Dio vivente, che ci chiama e ci svela il suo amore, un amore che ci precede e su cui possiamo poggiare per essere saldi e costruire la vita. Trasformati da questo amore riceviamo occhi nuovi, sperimentiamo che in esso c’è una grande promessa di pienezza  e si apre a noi lo sguardo del futuro” (n. 4).

Quest’ultimo accenno di papa Francesco merita una sottolineatura perché ci aiuta a cogliere il senso e il peso della storicità sia nella fede che nel credente. Scrive il papa: “La fede che riceviamo da Dio come dono soprannaturale, appare come luce per la strada, luce che orienta il nostro cammino nel tempo. Da una parte, essa procede dal  passato, è luce di una memoria fondante, quella della vita di Gesù, dove si è manifestato il suo amore pienamente affidabile, capace di vincere la morte. Allo stesso tempo, però, poiché Cristo è risorto e ci attira oltre la morte, la fede è luce che viene dal futuro, che schiude davanti a noi orizzonti grandi, e ci porta al di là del nostro ‘io’ isolato verso l’ampiezza della comunione. Comprendiamo allora che la fede non abita nel buio; che essa è una luce per le nostre tenebre” (n. 4).

Dopo questa introduzione si aprono e si sviluppano i quattro capitoli dell’enciclica, che secondo la metafora sopra scelta vogliamo ora fotografare.

Ad emergere sono anzitutto gli stessi titoli dei capitoli che riprendono brevissime frasi dalla Sacra Scrittura. Si tratta di frasi particolarmente significative, non solo perché hanno la freschezza e l’autorevolezza proprie della “parola di Dio”, ma anche perché dicono in modo immediato quale è il cuore vivo e pulsante del tema trattato nei singoli capitoli dell’enciclica.

Abbiamo creduto all’amore (1 Gv 4,16). È questo il titolo del primo capitolo dell’enciclica (nn. 8-22). E così il centro dell’intero capitolo è dato dalla fede come realtà del tutto imparentata e inscindibilmente unita all’amore, al punto di dover dire con un linguaggio quanto mai semplice e insieme perentorio che non c’è fede senza amore e che non c’è amore senza fede.

La figura biblica che campeggia in questo primo capitolo è quella di Abramo, che diviene testimonianza luminosissima e spiegazione vivente che la fede è “ascolto” della Parola di Dio. Come scrive il Papa: “Nella sua vita accade un fatto sconvolgente: Dio gli rivolge la Parola, si rivela come un Dio che parla e che lo chiama per nome. La fede è legata all’ascolto. Abramo non vede Dio, ma sente la sua voce. In questo modo la fede assume un carattere personale. Dio risulta così non il Dio di un luogo, e neanche il Dio legato a un tempo sacro specifico, ma il Dio di una persona, il Dio appunto di Abramo, Isacco e Giacobbe, capace di entrare in contatto con l’uomo e di stabilire con lui un’alleanza. La fede è la risposta a una Parola che interpella personalmente, a un Tu che ci chiama per nome” (n. 8).

Già questo dato risulta essere esplosivo, affascinante e inquietante ad un tempo, per chi ha della fede una visione ed un’esperienza piuttosto impoverite, problematiche, se non addirittura distorte, perché finiscono per ricondurre la fede a qualche elemento devozionistico o pietistico, a qualche pratica rituale o precetto da osservare, lasciando però di fatto ai margini l’aspetto superlativamente personale che è tipico della fede vera e autentica. Mi viene da pensare, in questo momento, a sant’Ambrogio e alla sua concezione quanto mai viva e concreta della fede: questa è incontro-dialogo-abbraccio interpersonale tra Cristo e il credente. Basti questa sua duplice parola. La prima riguarda i sacramenti, che si pongono come la sorgente e il vertice della fede cristiana: “Tu ti sei mostrato a me, faccia a faccia, o Cristo: io ti trovo nei tuoi sacramenti” (Apologia del Profeta Davide, 12,58). La seconda parola mette in luce quella che possiamo chiamare la concretezza umana della fede: “E’ con la fede che si tocca; è con la fede che si vede Cristo” (Esposizione del Vangelo secondo Luca, VI, 57).

Sì, la fede è ascolto della Parola di Dio. Ma come si configura più precisamente questa parola? Quale significato e quale finalità questa Parola ha per la vita, per la vita d’ogni giorno, per la vita tutt’intera? La Lumen fidei risponde così: “Ciò che questa Parola dice ad Abramo consiste in una chiamata e in una promessa. È prima di tutto chiamata ad uscire dalla propria terra, invito ad aprirsi a una vita nuova, inizio di un esodo che lo incammina verso un futuro inatteso… Questa Parola contiene inoltre una promessa: la tua discendenza sarà numerosa, sarai padre di un grande popolo (cfr Gen 13,16; 15,5; 22,17)” (n. 9). La fede allora è e sarà sempre “un atto di memoria”, racchiude cioè e sprigiona una duplice memoria: del passato e del futuro, e in tal modo si lega strettamente alla traditio e alla speranza.

È interessante notare come a questo punto l’enciclica passi dalla figura individuale di Abramo a quella del popolo d’Israele: un passaggio che è segnato dalla paternità di Dio, la quale si riflette sul vecchio patriarca e sulla sua discendenza. In tal senso la fede, come prende la singola persona, così coinvolge l’intero popolo. Ma soprattutto a partire dalla paternità di Dio, in quanto accolta oppure rifiutata, la fede presenta il suo volto: quello di essere una grande sfida per tutti e per ciascuno. Si tratta infatti di scegliere tra l’affidamento a Dio e l’affidamento agli idoli: il primo affidamento ci conduce nelle braccia e nel cuore di Dio, ci inserisce nell’oceano del suo amore, ci pone sicuri e sereni sulla “roccia” della sua onnipotenza, ci riscalda nel fuoco del suo Spirito; il secondo affidamento invece è l’incredulità, è l’idolatria ossia il consegnarsi agli idoli, che portano l’uomo a disperdersi nella molteplicità dei suoi desideri, a disintegrarsi nei mille istanti della sua storia, a non attendere il tempo della promessa, ma a rimanere schiacciato sul presente o rifugiato nostalgicamente nel passato. Come scrive il Papa, “Credere significa affidarsi a un amore misericordioso che sempre accoglie e perdona, che sostiene e orienta l’esistenza, che si mostra potente nella sua capacità di raddrizzare le storture della nostra storia. La fede consiste nella disponibilità a lasciarsi trasformare sempre di nuovo dalla chiamata di Dio. Ecco il paradosso: nel continuo volgersi verso il Signore, l’uomo trova una strada stabile che lo libera dal movimento dispersivo cui lo sottomettono gli idoli” (n. 13).

Dopo la presentazione della figura di Abramo la Lumen fidei prosegue il suo cammino soffermandosi su di un’altra grande figura, quella di Mosè, il mediatore: “Il popolo – scrive il Papa – non può vedere il volto di Dio; è Mosè a parlare con YHWH sulla montagna e a riferire a tutti il volere del Signore. Con questa presenza del mediatore, Israele ha imparato a camminare unito. L’atto di fede del singolo si inserisce in una comunità, nel ‘noi’ comune del popolo che, nella fede, è come un solo uomo, ‘il mio figlio primogenito’, come Dio chiamerà l’intero Israele (cfr Es 4,22)”.

E subito papa Francesco precisa: “La mediazione non diventa qui un ostacolo, ma un’apertura: nell’incontro con gli altri lo sguardo si apre verso una verità più grande di noi stessi” (n. 14). In realtà la mediazione ci offre la “capacità di partecipare alla visione dell’altro, sapere condiviso che è il sapere proprio dell’amore”.

Ma le figure di Abramo e di Mosè sono soltanto un’anticipazione perché puntano sulla realtà definitiva e irreversibile, che è Cristo Gesù, il Signore, il crocifisso risorto dai morti, il “sì” definitivo a tutte le promesse, il fondamento del nostro “Amen” finale a Dio (cfr 2 Cor 1,20). E così il Signore Gesù si pone come la manifestazione suprema dell’amore totalmente affidabile di Dio per noi: una manifestazione che passa attraverso la vita di Gesù e nel modo più alto attraverso la sua morte in croce. “Ecco perché – annota il Papa – gli evangelisti hanno situato nell’ora della Croce il momento culminante dello sguardo di fede, perché in quell’ora risplende l’altezza e l’ampiezza dell’amore divino” (n. 16). Ma, aggiunge papa Francesco, “la morte di Cristo svela l’affidabilità totale dell’amore di Dio alla luce della sua Risurrezione. In quanto risorto, Cristo è testimone affidabile, degno di fede (cfr Ap 1,5; Eb 2,17), appoggio solido per la nostra fede. ‘Se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede’, afferma san Paolo (1 Cor 15,17)”. E l’enciclica spiega: “Proprio perché Gesù è il Figlio, perché radicato in modo assoluto nel Padre, ha potuto vincere la morte e far risplendere in pienezza la vita” (n. 17).

E qui merita d’essere citato dall’enciclica un rilievo che non può non interpellarci e coinvolgerci: “La nostra cultura ha perso la percezione di questa presenza concreta di Dio, della sua azione nel mondo. Pensiamo che Dio si trovi solo al di là, in un altri livello di realtà, separato dai nostri rapporti concreti. Ma se fosse così, se Dio fosse incapace di agire nel mondo, il suo amore non sarebbe veramente potente, veramente reale, e non sarebbe quindi neanche vero amore, capace di compiere quella felicità che promette. Credere o non credere in Lui sarebbe allora del tutto indifferente. I cristiani, invece, confessano l’amore concreto e potente di Dio, che opera veramente nella storia e ne determina il destino finale, amore che si è fatto incontrabile, che si è rivelato in pienezza nella Passione, Morte e Risurrezione di Cristo” (n. 17).

Ma c’è un aspetto fondamentale e decisivo della fede in Gesù, che il Papa sottolinea con grande chiarezza e forza: “la partecipazione al suo modo di vedere”. “Nella fede, Cristo non è soltanto Colui in cui crediamo, la manifestazione massima dell’amore di Dio, ma anche Colui al quale ci uniamo per poter credere. La fede, non solo guarda a Gesù, ma guarda dal punto di vista di Gesù, con i suoi occhi” (n. 18).

Ricorrendo poi ad un’analogia, il Papa spiega che, come nella vita quotidiana ci affidiamo ad “altre persone che conoscono le cose meglio di noi” – l’architetto, il farmacista, l’avvocato –, così per la fede “abbiamo anche bisogno di qualcuno che sia affidabile ed esperto nelle cose di Dio. Gesù, suo Figlio, si presenta come Colui che ci spiega Dio (cfr Gv 1,18)” (n. 18).

E così tutto si fa limpido e affascinante per il cammino di fede d’ogni nostra giornata: noi crediamo a Gesù quando accettiamo la sua Parola, quando Lo accogliamo personalmente nella nostra vita e ci affidiamo a Lui, quando aderiamo a Lui nell’amore e seguendolo lungo la strada. È per permettere tutto questo che il Figlio di Dio ha assunto la nostra carne. Ora è proprio grazie a questo suo farsi uomo che “la fede non ci separa dalla realtà, ma ci permette di cogliere il suo significato più profondo, di scoprire quanto Dio ama questo mondo e lo orienta incessantemente verso di Sé; e questo – conclude il Papa – porta il cristiano a impegnarsi, a vivere in modo ancora più intenso il cammino della storia” (n. 18).

Così, grazie alla fede, l’uomo si salva. Si salva perché si apre a un Amore che lo precede e lo trasforma dall’interno: lo costituisce  “una creatura nuova”, gli dona “un nuovo essere filiale” che lo rende “figlio nel Figlio”. È questo il dono meraviglioso e umanamente impensabile che la fede – con l’azione di Cristo e del suo Spirito – regala al credente.

Perché possa crescere sempre di più la sorprendente e gioiosa consapevolezza del dono che ci viene dalla fede desidero rileggere un brano, tra i più semplici e belli, dell’enciclica: “Possiamo così capire la novità alla quale la fede ci porta. Il credente è trasformato dall’Amore, a cui si è aperto nella fede, e nel suo aprirsi a questo Amore che gli è offerto, la sua esistenza si dilata oltre sé. San Paolo può affermare: ‘Non vivo più io, ma Cristo vive in me’ (Gal 2,20), ed esortare: ‘Che Cristo abiti per la fede nei vostri cuori’ (Ef 3,17). Nella fede, l’ ‘io’ del credente  si espande per essere abitato da un Altro, per vivere in un Altro, e così la sua vita si allarga nell’Amore. Qui si situa l’azione propria dello Spirito Santo. Il cristiano può avere gli occhi di Gesù, i suoi sentimenti, la sua disposizione filiale, perché viene reso partecipe del suo Amore, che è lo Spirito. Fuori da questa conformazione nell’Amore, fuori della presenza dello Spirito che lo infonde nei nostri cuori (cfr Rm 5,5), è impossibile confessare Gesù come Signore (cfr 1 Cor 12,3)” (n. 21).

Questo che diciamo del singolo credente non è nel segno dell’individualismo o dell’egoismo spirituale, ma in quello della dimensione ecclesiale della fede, perché “l’esistenza credente diventa esistenza ecclesiale”. È questo il grande tema dell’apostolo Paolo: la fede si confessa all’interno del corpo della Chiesa. “I cristiani – scrive il Papa – sono ‘uno’ (cfr Gal 3,28), senza perdere la loro individualità, e nel servizio agli altri ognuno guadagna fino in fondo il proprio essere… La fede ha una forma necessariamente ecclesiale, si confessa all’interno del corpo di Cristo, come comunione concreta dei credenti. È da questo luogo ecclesiale che essa apre il singolo cristiano verso tutti gli uomini… La fede non è un fatto privato, una concezione individualistica, un’opinione soggettiva, ma nasce da un ascolto ed è destinata a pronunciarsi e a diventare annuncio” (n. 22).

Se non crederete, non comprenderete: con queste parole tratte dal profeta Isaia (Is 7,9) l’enciclica apre e presenta il suo secondo capitolo (nn.23-36). Di nuovo la nostra foto vorrebbe, non solo mostrare in modo globale e sintetico il contenuto del capitolo nella sua interezza, ma anche scendere a cogliere in modo specifico alcuni particolari che ne svelano la loro ricchezza biblica, teologica, pastorale e spirituale. Mi vedo però costretto a lasciare a chi lo desidera la lettura attenta e meditata della Lumen fidei. Personalmente mi accontento di offrire, a mo’ di riassunto, le sue linee essenziali.

Seguendo le parole del profeta Isaia al re Acaz, così come vengono proposte nella versione greca della Bibbia ebraica, il capitolo intende mettere al centro della fede la questione della conoscenza della verità, dimostrando in particolare lo stretto legame tra fede e verità, la verità affidabile di Dio, la sua presenza fedele nella storia: “La fede senza verità non salva – scrive il Papa – , non rende sicuri i nostri passi. Resta una bella fiaba, la proiezione dei nostri desideri di felicità… Oppure si riduce a un bel sentimento, che consola e riscalda, ma resta soggetto al mutarsi del nostro animo…” (n. 24). Ma è un dato incontrovertibile che l’uomo ha bisogno di conoscenza, ha bisogno di verità, cosicchè “richiamare la connessione della fede con la verità è oggi più che mai necessario, proprio per la crisi di verità in cui viviamo” (n. 25). Sì, un’esigenza di sempre, oggi però resa più acuta, insieme più sofferta e liberante. Infatti, non bastano le verità della tecnologia, non sono sufficienti “le verità del singolo” che sono valide per l’individuo e non a servizio del bene comune. Occorre superare il relativismo e ritrovare “la verità grande, la verità che spiega l’insieme della vita personale e sociale”. Occorre vincere “il grande oblio del mondo contemporaneo”: la dimenticanza cioè della domanda sulla verità, sull’origine di tutto, la domanda su Dio.

Per questo la Lumen fidei sottolinea il legame tra fede e amore, inteso quest’ultimo non come “un sentimento che va e viene”, ma come il grande amore di Dio che ci trasforma interiormente e ci dona occhi nuovi per vedere la realtà. Ma se la fede è legata alla verità e all’amore, allora anche “amore e verità non si possono separare”, perché solo l’amore vero supera la prova del tempo e diventa fonte di conoscenza. E poiché la conoscenza della fede nasce dall’amore fedele di Dio, “verità e fedeltà vanno insieme”. La verità che la fede ci dischiude è una verità incentrata sull’incontro con Cristo il Verbo fatto carne, il quale, venendo tra noi, ci ha toccato e donato la sua grazia, trasformando il nostro cuore.

A questo punto, il Papa apre un’ampia riflessione sul “dialogo tra fede e ragione”, come pure un’analisi sulla verità nel mondo di oggi, in cui essa viene spesso ridotta ad “autenticità soggettiva”, perché la verità comune fa paura e perché viene identificata con l’imposizione intransigente dei totalitarismi. Invece, se la verità è quella dell’amore di Dio, allora non si impone con la violenza, non schiaccia il singolo. Per questo, la fede non è intransigente e il credente non è arrogante. Al contrario, la verità rende umili e porta alla convivenza sociale e al rispetto dell’altro. Ne deriva ancora che la fede porta al dialogo in tutti i campi: in quello della scienza, perché risveglia il senso critico e allarga gli orizzonti della ragione, invitando a guardare con meraviglia il creato; nel confronto interreligioso, in cui il cristianesimo offre il proprio contributo; nel dialogo con i non credenti che non cessano di cercare, che “cercano di agire come se Dio esistesse”, perché “Dio è luminoso e può essere trovato anche da coloro che lo cercano con cuore sincero”. In termini di grande semplicità e vigore il Papa scrive: “Chi si mette in cammino per praticare il bene si avvicina già a Dio”.

Infine l’enciclica parla della teologia, affermando che essa è impossibile senza la fede, poiché Dio non ne è un semplice “oggetto”, ma è “Soggetto” personale che si fa conoscere e incontrare. La teologia è partecipazione alla conoscenza che Dio ha di se stesso: per questo deve porsi al servizio della fede dei cristiani e vede nel Magistero ecclesiale non è un limite alla libertà, bensì un suo elemento costitutivo dal momento che assicura il contatto con la fonte originaria, con la Parola di Cristo.

Vi trasmetto quello che ho ricevuto. Questa parola di Paolo (cfr 1 Cor 15,3), insieme a quest’altra “Ho creduto, perciò ho parlato, anche noi crediamo e perciò parliamo” (2 Cor 4, 13), dice in modo immediato che il terzo capitolo dell’enciclica è incentrato sull’evangelizzazione e sulla sua importanza: “Chi si è aperto all’amore di Dio, ha ascoltato la sua voce e ha ricevuto la sua luce, non può tenere questo dono per sé. Poiché la fede è ascolto e visione, essa si trasmette anche come parola e come luce… La parola ricevuta si fa risposta, confessione e, in questo modo, risuona per gli altri, invitandoli a credere” (n. 37).

La luce di Gesù brilla, come in uno specchio, sul volto dei cristiani e così si diffonde, si trasmette nella forma del contatto, come una fiamma che si accende da un’altra fiamma, e passa di generazione in generazione attraverso la catena ininterrotta dei testimoni della fede. Si dà così un legame tra la fede e la memoria perché l’amore di Dio mantiene uniti tutti i tempi e ci rende contemporanei di Gesù, che si pone come la guida del nostro camminare nella fede..

La trasmissione della fede mostra che “è impossibile credere da soli”, perché “la fede non è solo un’opzione individuale che avviene nell’interiorità del credente, non è rapporto isolato tra l’‘io’ del fedele e il ‘Tu’ divino, tra il soggetto autonomo e Dio. Essa si apre, per sua natura, al ‘noi’, avviene sempre all’interno della comunione della Chiesa”. E così ci è dato di cogliere una realtà che ci dà gioia e entusiasmo: “chi crede non è mai solo” ma “scopre che gli spazi del suo ‘io’ si allargano e generano in lui nuove relazioni che arricchiscono la vita. L’enciclica ricorda qui la bella testimonianza di Tertulliano che parla del “catecumeno che ‘dopo il lavacro della nuova nascita’ è accolto nella casa della Madre per stendere le mani e pregare, insieme ai fratelli, il Padre nostro, come accolto in una nuova famiglia” (n. 39).

A questo punto l’enciclica si sofferma con la dovuta ampiezza e incisività esistenziale – ma noi siamo costretti ora a limitarci ad un semplice elenco – a illustrare i diversi mezzi di trasmissione della fede, in particolare i Sacramenti (in specie il Battesimo e l’Eucaristia), il Credo come professione di fede, la preghiera (il Padre nostro), il Decalogo. Come opportunamente scrive il Papa, sono qui toccati “i quattro elementi che riassumono il tesoro di memoria che la Chiesa trasmette: la Confessione di fede, la celebrazione dei Sacramenti, il cammino del Decalogo, la preghiera”. E conclude: “La catechesi della Chiesa si è strutturata tradizionalmente attorno ad essi, incluso il Catechismo della Chiesa Cattolica, strumento fondamentale per quell’atto unitario con cui la Chiesa comunica il contenuto intero della fede, ‘tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede’ (Dei Verbum, 8)” (n. 46).

Il capitolo termina con l’importante affermazione dell’unità e integrità della fede. Ci bastino una parola di spiegazione e un’esplicita citazione di papa Francesco. La fede è una perché uno è il Dio conosciuto e confessato, perché si rivolge all’unico Signore, ci dona l’unità di visione, ed è condivisa da tutta la Chiesa, che è un solo corpo e un solo Spirito. “Dato che la fede è una sola deve essere confessata in tutta la sua purezza e integrità, Proprio perché tutti gli articoli di fede sono collegati in  unità, negare uno di essi, anche di quelli che sembrerebbero meno importanti,, equivale a danneggiare il tutto. Ogni epoca può trovare punti della fede più facili o difficili da accettare: per questo è importante vigilare perché si trasmetta tutto il deposito della fede (cfr 1 Tm 6,20), perché si insista opportunamente su tutti gli aspetti della confessione di fede…” (n. 48).

Dio prepara per loro una città. Con questo riferimento alla lettera agli Ebrei (11,16) si apre il quarto e ultimo capitolo dell’enciclica. Anche questo è un capitolo da fotografare con singolare cura, certo per ragioni oggettive ma non meno per motivi legati all’attualità storica della nostra società e del nostro mondo.

All’inizio ci chiedevamo il perché papa Francesco abbia voluto scegliere il tema della fede come argomento della prima enciclica di un pontificato che si presenta come segnato da un’acuta sensibilità sociale di fronte ai tanti e profondi travagli e ai drammi dei poveri, degli ultimi, dei disperati, degli “scartati” dalla cultura individualistica ed egoistica, dai poteri forti della finanza e dell’economia e dei media, dalla “globalizzazione dell’indifferenza”, da prassi bollate come “vergognose”.

Ora in termini più specifici è proprio quest’ultimo capitolo della Lumen fidei  a mostrarci la mission della fede cristiana – ossia il significato profondo, il peso rivoluzionario, l’efficacia rinnovatrice – nei riguardi della società umana e, in tal modo, a dare risposta alla domanda inizialmente posta sul perché di un’enciclica sulla fede.

In questo senso questo capitolo dovrebbe essere oggetto di altri più distesi incontri. Ora mi limiterei ad un duplice flash: il primo delinea sinteticamente l’articolazione dei punti toccati da papa Francesco, il secondo riferisce un mio velocissimo commento.

I vari punti trovano la loro articolazione sul rapporto tra fede e bene comune e questo, da un lato a partire dall’esigenza di avere “un luogo nel quale l’uomo possa abitare insieme con gli altri” (e qui l’enciclica ricorda l’arca di Noè, le tende di Abramo, la città dalle salde fondamenta per Israele), e dall’altro lato in riferimento ai rapporti umani che nella fede trovano nuova luce e nuovo amore e si fanno così più saldi e fecondi. Scrive il papa: “Proprio grazie alla sua connessione con l’amore (cfr Gal 5,6), la luce della fede si pone al servizio concreto della giustizia, del diritto e della pace…” (n. 51). Per questo “la luce della fede è in grado di valorizzare la ricchezza delle relazioni umane, la loro capacità di mantenersi, di essere affidabili, di arricchire la vita comune. La fede non allontana dal mondo e non risulta estranea all’impegno concreto dei nostri contemporanei… Sì, la fede è un bene per tutti, è un bene comune, la sua luce non illumina solo l’interno della Chiesa, né serve unicamente a costruire una città eterna nell’aldilà; essa ci aiuta a edificare le nostre società, in modo che cammino verso un futuro di speranza…” (n. 51).

Il discorso dell’Enciclica si fa più dettagliato in riferimento ai diversi ambiti umani illuminati dalla fede, offrendo spunti di notevole interesse sulla famiglia fondata sul matrimonio, sui giovani e sul loro “desiderio di una vita grande”, sui rapporti sociali nel segno di una “fraternità universale”, sulla natura e il creato, sulle forme giuste di governo, sulla sofferenza e sulla morte.

Ciascuno di questi ambiti della vita sociale ha nell’enciclica una illustrazione sintetica sì ma quanto mai inquietante e stimolante. Mi fermo solo su di una conclusione di papa Francesco in merito al rapporto tra fede e bene comune: “Quando la fede viene meno, c’è il rischio che anche i fondamenti del vivere vengano meno… Se togliamo la fede in Dio dalle nostre città, si affievolirà la fiducia tra noi, ci terremmo uniti soltanto per paura, e  la stabilità sarebbe minacciata” (n. 55).

Dicevo anche di un velocissimo commento personale: questo non riguarda la Lumen fidei ma l’enciclica di Caritas in veritate  di Benedetto XVI. In realtà, siamo di fronte a due encicliche che s’incontrano tra loro, si abbracciano a partire da un’unico spirito, si completano a vicenda. La veritas della carità coinvolta dal problema dei rapporti umani nel contesto globale dello sviluppo è ultimamente data dalla fede cristiana, così come la caritas quale sorgente, dinamismo e forza dello sviluppo umano integrale è intimamente alleata con la fides, con la sua luce e il suo calore.

È per questo che desidero concludere il nostro incontro rimandando ad una lettura personale degli ulti tre numeri della Lumen fidei dedicati a Maria, a colei che è beata perché ha creduto (crf Lc 1,45) e riascoltando la finale dell’enciclica Caritas in veritate: “Lo sviluppo ha bisogno di cristiani con le braccia alzate verso Dio nel gesto della preghiera, cristiani mossi dalla consapevolezza che l’amore pieno di verità, caritas in veritate, da cui procede l’autentico sviluppo, non è da noi prodotto ma ci viene donato. Perciò anche nei momenti più difficili e complessi, oltre a reagire con consapevolezza, dobbiamo soprattutto riferirci al suo amore. Lo sviluppo implica attenzione alla vita spirituale, seria considerazione delle esperienze di fiducia in Dio, di fraternità spirituale in Cristo, di affidamento alla Provvidenza e alla Misericordia divine, di amore e di perdono, di rinuncia a se stessi, di accoglienza del prossimo, di giustizia e di pace. Tutto ciò è indispensabile per trasformare i ‘cuori di pietra’ in ‘cuori di carne’ (Ez 36,26), così da rendere ‘divina’ e perciò più degna dell’uomo la vita sulla terra… L’anelito del cristiano è che tutta la famiglia umana possa invocare Dio come ‘Padre nostro!’…” (n. 79).

+ Dionigi card. Tettamanzi

Trieste, 10 ottobre 2013